Nel 1979 vivevamo a Milano nel rione della parrocchia San Giuseppe della Pace. La famiglia a quell’epoca era composta da me, mia moglie Irma e nostro figlio Paolo, un ragazzo con sindrome di Down di 16 anni. Uscendo dalla messa ci si avvicinò una signora, Giovanna Carozzi, che ci chiese se conoscevamo il movimento di Fede e Luce. Ci raccontò in poche parole cosa faceva quel gruppo. Per noi fu un segno della Provvidenza: a Fede e Luce, genitori, figli e amici si sentono davvero tutti uguali scambiandosi le loro esperienze e sostenendosi a vicenda in una strada, difficile ma tanto entusiasmante, da percorrere insieme.
Nel 1991 ci trasferimmo a Ponte Lambro; lì conoscemmo il gruppo di Fede e Luce, fondato da don Dario Madaschi. Nello stesso anno adottammo Teresa Chiara che aveva pochi mesi di vita ed era stata abbandonata per la sua sindrome in un piccolo ospedale di provincia. Teresa Chiara ora ha 35 anni e frequenta un centro socio educativo della nostra città; Paolo invece, cinquantaseienne, è in pensione da alcuni anni dopo averne lavorati trenta a Il Sole 24 Ore.
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Nel 2000 con alcuni genitori, amici di Fede e Luce e molte altre persone di Ponte Lambro, fondammo l’Associazione Arcobaleno onlus per costituire comunità alloggio e appartamenti protetti. Nel 2009 riuscimmo a inaugurare la struttura di accoglienza Casa di Dario, chiamata così in onore di quel giovane sacerdote, morto all’età di 30 anni, nel 1985. Don Dario Madaschi fu amatissimo assistente spirituale della comunità e poi dell’associazione nazionale. Grande fu il suo impegno pastorale a favore delle persone fragili. Insieme, avevamo discusso molte volte sull’adesso e il dopo di noi; il discorso con don Dario andava spesso verso la soluzione di una protezione sia abitativa che globale: progettare insieme a tanti amici poteva essere la soluzione. La sua idea di vivere in comunità era entusiasmante e, anche se carica di potenziali difficoltà, mi aveva conquistato. Dalla fine del 1984 i miei pensieri erano costantemente rivolti a trovare la via per costruire una comunità nella quale far vivere i nostri figli o chi ne avesse avuto bisogno e aiutare così i genitori ad avere speranza nel futuro.
Oggi la Comunità è gestita da Codess, un’importante realtà presente nel campo sociale; è abitata da dieci persone con disabilità intellettiva e fisica che non hanno più il sostegno della loro famiglia di origine. Le persone sono seguite da operatori specializzati, da un’educatrice e da una coordinatrice. A connotare la comunità non vi è il concetto di “struttura residenziale”, bensì il senso familiare della parola “casa”. È da questa idea che nasce la parola abitante, a sostituire quella di ospite, per identificare coloro che vivono in comunità. Il clima che si respira è molto simpatico e familiare al punto che ogni abitante dice «questa è casa mia». Anche i volontari, espressione di un importante legame con il territorio, si sentono come fossero fratelli: i legami e le affinità che si sviluppano contribuiscono al senso comune di appartenenza a una comunità. Le attività degli abitanti sono individualizzate: qualcuno aiuta in cucina, qualcuno disegna, legge o sente musica. Ci sono poi momenti comuni dove si stabiliscono turni e regole. Alcuni escono durante la giornata per frequentare i centri socio educativi della zona, imparando cose che servono per la loro autonomia.
Per noi genitori questa esperienza è molto consolante: ci fa capire che, anche quando non ci saremo più, esiste una soluzione per i nostri figli fragili, che può essere sia quella della comunità che quella degli appartamenti protetti per la vita indipendente. Come sarà meglio per ciascuno.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 153, 2021
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