Finire il liceo e diplomarsi, dare una casa alla piccola e immensamente amata, fragile famiglia, trovare un lavoro con cui sostenerla e pagare quanto indispensabile per la piccola Maria, nata prematura e con una grossa difficoltà in più… è il sogno di una vita normale che Rosario Altieri, appena maggiorenne, custodisce e per il quale combatte con tutte le sue forze.
Il protagonista che prende vita dalla penna di Dario Levantino, nel libro appena uscito La violenza del mio amore edito da Fazi, veste appieno i panni dell’eroe di un’epica lotta contro un destino segnato dall’impossibilità di riscatto. Perché il sogno di Rosario è incastonato tra le spine dell’amato – perché è «il nostro» e «nessuno ne può parlare male» se non chi lo abita – e difficile, difficilissimo, quartiere di Brancaccio a Palermo. Come una pietra preziosa, Rosario protegge quel sogno con tutto se stesso, in una situazione che lo vede invece completamente disarmato: custodirlo e amarlo è l’unico raggio di luce in un orizzonte che sembra davvero non offrire nulla.
Incontriamo Rosario quasi maggiorenne: entro pochi giorni compirà gli anni e uscirà senza troppi complimenti da una casa-famiglia che è stata un tetto freddo e poco familiare, nel quale è stato inserito dopo la malattia e morte della giovane madre. A cambiare l’orizzonte di solitudine è però il ritorno di Anna, poco più che maggiorenne, «con la pancia gonfia di amore e i vestiti stretti». La giovane aveva seguito la famiglia all’estero qualche mese prima, dopo aver salutato, apparentemente per sempre, quel ragazzo che l’aveva catturata con un profondo affetto. Ma quell’amore aveva portato all’attesa di un bambino e Anna era stata cacciata di casa per non aver voluto abortire. Da quel momento saranno soli, senza niente e insieme: Rosario, Anna e poi la piccola fragile Maria con l’inseparabile cane Jonathan, fedelissimo randagio.
Sarà il parroco del quartiere padre Giovanni, che aiuta chiunque ne abbia bisogno anche senza averne i mezzi, ad offrire un posto prima solo a Rosario, poi ad Anna e infine alla piccola neonata Maria: uno sgabuzzino della chiesa, visto che la sua casa era già occupata per le notti dai figli delle prostitute del quartiere. Chi ha i mezzi, della violenza e del potere, è invece il boss del rione che tesse le fila della vita degli abitanti di Brancaccio e al quale è indispensabile rivolgersi, inchinarsi e mai deludere, anche per ottenere una casa popolare cui si avrebbe pieno diritto.
Il solo rifugio veramente loro è una barca rovesciata su una spiaggia impervia che affaccia sul mare di Brancaccio, orizzonte finalmente libero e da riempire di progetti. Un luogo segreto che insieme hanno ripulito – accomodato e abbellito da Anna – dove sfuggire allo squallore del presente, sognare un futuro possibile e nutrirsi d’amore reciproco; ma anche dove leggere e ascoltare pagine di libri che, riconosce Rosario, gli «hanno salvato la vita… dissuaso dall’essere come gli altri… persuaso che a capire gli altri finisci per capire te stesso… insegnato che in ogni circostanza esiste sempre il bene e il male, e che il nostro compito è dare conto delle azioni fatte al tribunale della nostra coscienza prima di addormentarci». È un amante delle materie umanistiche Rosario, per questo ha scelto un liceo e non un istituto professionale. Eppure, di umano trova ben poco: bollato come quello di Brancaccio e con un padre carcerato per droga, è stato bocciato, considerato fuori luogo per la maggioranza degli insegnanti di una scuola descritta come sostanzialmente classista e sorda alle qualità non rigidamente valutabili degli alunni, isolato anche dai compagni. Un ambiente totalmente ostile se non fosse per il professore di filosofia, precario, il solo ad interessarsi veramente alla sua situazione e che apprezza la capacità di Rosario di elaborare idee proprie sugli argomenti proposti in classe.
Davvero pochi ma essenziali i riferimenti per Rosario, fragili e allo stesso tempo forti che non cessano mai di accompagnarne animo e coscienza: la madre Maria, morta per anoressia, che voleva che il figlio studiasse; il nonno materno mai conosciuto dal quale ha ereditato il nome e il talento di portiere di carattere; padre Giovanni, che «senza perdersi in liturgie», gli insegnava che «capire che cos’è il bene è troppo difficile, ma riconoscere il male invece si può: quando lo facciamo, proviamo dentro un senso di colpa e di vergogna»; Anna, la sua amata «per sempre» che insieme alla piccola Maria – la cui grave malattia non appare mai tentazione di fuga – rappresentano per il giovane desideri incarnati di cui prendersi cura con tenerezza e determinazione. Intorno a questo nucleo splendente, tanti, troppi, tradimenti: quello di una scuola incapace di dare reali opportunità a ogni suo studente; di una burocrazia statale inetta e collusa; di una sanità fin troppo essenziale per chi non può permettersi altro; di un’assistenza sociale e di un collocamento che guardano altrove.
Sono tante le riflessioni che suscita questo romanzo dai tratti neorealistici: sociologiche, educative, psicologiche, religiose, politiche, antropologiche… Ma è quello profondamente umano a lasciare il segno e a spingere ciascuno a fare i conti con il proprio cuore inquieto – quel tribunale della propria coscienza evocato da Rosario – e interrogarsi sul proprio ruolo nel mondo: l’apparente, umana assurdità di un ragazzo dalla testarda e genuina forza (l’unica violenza evocata dal titolo) di prendersi cura e amare quanto gli è affidato e che rimane capace di riconoscere il dolore proprio in quello del mondo. Tanto assurdo da vincere la guerra nonostante abbia perduto tutte le battaglie.
La violenza del mio amore
Autore: Dario Levantino
Editore: Fazi
Pubblicato: Pagine: 304
Prezzo: 16€
ISBN: 9791259670212
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