La motivazione riguarda «La loro dedizione all’inclusione e al sostegno per il dopo di noi delle persone con gravi disabilità cognitive-sensoriali»: è Matteo stesso a chiedere all’addetto della sala stampa del Quirinale di aggiungere la specificità relativa al dopo di noi. Da trent’anni vivono a fianco di alcune persone con disabilità mentale e fisica grave in una struttura abbastanza anomala nel campo dell’accoglienza per la vita delle persone con disabilità, almeno nel territorio romano. Il complesso di via Strampelli, costruito in un fondo rurale messo a disposizione dalla Fondazione Francesco Gammarelli nella campagna romana del Parco Naturale di Decima Malafede e avviato nel 2004, è una struttura circondata da ulivi e campi coltivati; intorno a due ampie terrazze pavimentate, sorgono quattro piccoli edifici. Due grandi appartamenti, moduli delle due case famiglia accreditate, con una capienza di sette posti ciascuna, una in regime convenzionato e l’altra privato, dove vivono in tutto attualmente nove ospiti disabili; mancherebbe un terzo modulo già progettato e autorizzato che però potrà essere costruito quando le disponibilità economiche consentiranno anche il suo funzionamento. Accanto ai due appartamenti, ci sono due sale polifunzionali e un edificio con le abitazioni monofamiliari delle quali una è occupata dalla famiglia Mazzarotto: Matteo, 62 anni, Ivana 55, Anna 17. Le altre due figlie maggiori, Maria (25 anni) e Francesca (22) vivono fuori da qualche anno per motivi di studio.
Come avete ricevuto la notizia?
Matteo: «Mi hanno passato una telefonata dalla casa famiglia, “C’è un signore che cerca te e Ivana… un signore dalla sala stampa del Quirinale”. Li per lì pensavo ad un invito per Castel Porziano (la Tenuta del Presidente è stata aperta da Mattarella negli ultimi anni per il periodo estivo ad associazioni che si dedicano alla disabilità e simili ndr). Ma ad un certo punto ho capito. E sono stato in silenzio per diversi minuti… non sapevo proprio cosa dire. L’addetto mi ha spiegato cosa sarebbe successo e mi ha chiesto di mantenere il riserbo fino a quando la notizia sarebbe stata diffusa il giorno dopo. Superato il momento di shock ho chiamato Ivana a lavoro…».
Ivana: «Mi ha chiesto se ero sola, se ero seduta… Matte’ che è successo? Mi dice che hanno chiamato dal Quirinale e io ho pensato ai soggiorni, poi mi ha detto del riconoscimento. A quel punto, senza poterlo dire a nessuno, sono uscita e mi sono messa a piangere».
Matteo: «Poi la sera abbiamo fatto una video chiamata alle tre figlie, volevamo che lo sapessero tutte insieme e prima che uscisse la notizia. Anna (all’ultimo anno delle scuole superiori) era in casa in quel momento e proprio non capiva perché la stessimo chiamando; le altre due anche stupite perché non facciamo mai video chiamate… la cosa che più ci ha colpito a tutti e due è stata la reazione di Maria, la primogenita, (studente in Ingegneria al Politecnico di Torino) “Era ora, finalmente!” … una reazione lì per lì sorprendente, immediata, di pancia! Non era certo una cosa attesa chiaramente… Lo ha detto pensando a noi. Credo anche tanto rispetto a quanto hanno conosciuto sulla loro pelle del valore e della fatica di questo percorso che non hanno scelto come noi ma in cui sono cresciute… anche se ora sono tre ragazze abbastanza serene, non sappiamo fino in fondo cosa c’è nel loro vissuto…».
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Poi, il giorno dopo con la notizia si diffonde e i messaggi di congratulazione arrivano anche dal nord e dal sud della penisola: Ivana è di origine calabrese, di Lamezia Terme, e la voce gira presto anche lì, orgogliosa e affettuosa. Così come da Milano: qui alcune comunità di Fede e Luce hanno una lunga storia e diverse persone ricordano bene Matteo quando era segretario nazionale dell’associazione fino a circa 20 anni fa. Ne arriva uno in particolare da una delle comunità di Fede e Luce della città lombarda, attraverso una mamma, Elisa Sturlese. Scrive loro quanto, da genitore anziano di un figlio con disabilità intellettiva «si sono sempre augurati che il proprio figlio fosse accolto in una casa come la vostra… una Comunità creata e portata avanti… con coraggio, dedizione e senza dubbio fatica» augurandosi poi che quella casa potesse «continuare ad essere un rifugio accogliente e sicuro per tutti quelli che già la abitano e per gli “altri” che avranno la fortuna di venirci ad abitare».
Non è facile vedere Matteo commosso – non quanto Ivana almeno…- eppure lo è difronte a quelle tre righe in cui Elisa è riuscita a sottolineare il senso profondo e la convinzione alla base della nascita del Carro. Dice Matteo «Al di là del nostro sentimento e della nostra convinzione di vivere secondo certi canoni e non altri, la spinta era questa: stare insieme ai nostri amici con disabilità, starci in nome (non certo al posto) delle loro famiglie».
Come vivete questo riconoscimento?
Ivana: «Prima di tutto come un riconoscimento per tutte le famiglie per cui è importante che qualcuno pensi anche al futuro dei loro cari con disabilità, per chi ci ha conosciuto e che ci sostiene. E chiaramente ho pensato a Fede e Luce e ai tanti amici che custodiscono i legami con le persone con disabilità intellettiva, con fedeltà, nonostante le difficoltà quotidiane. Siamo nati anche noi da quegli incontri, piccoli rituali che danno grande valore a quei singoli momenti e alle singole persone. Non ho potuto fare a meno di pensare a Mariangela, Mariella, Viviana, Alberto, Olga persone che non ci sono più e che sono state fondamentali perché tutto questo andasse avanti».
Olga (la mamma di Sabina 55 anni, una delle donne accolte al Carro) parlava di voi pensando che avevate risposto ad una doppia vocazione…
Matteo: «Si chiedeva se fosse possibile che solo chi avesse fatto una scelta di vita consacrata potesse mandare avanti una cosa del genere. Olga aveva un suo pragmatismo anglosassone particolare. Se diceva (e non posso ricordarlo senza commuovermi) “Ora posso morire perché Sabina è con voi”, manteneva la sua preoccupazione perché non soccombessimo alla vita quotidiana dell’accoglienza e delle necessità della nostra famiglia. Che in effetti non è stata sempre scorrevole… Ma in questo momento sento un riconoscimento non solo a noi in particolare ma ad un mondo, una necessità, una tematica che il Presidente ha voluto sostenere. Anche una responsabilizzazione di tutto il Carro e di chi ci permette di andare avanti. Noi ci sentiamo parte di una stessa storia, lo sento come una fortificazione del significato che Fede e Luce ha vissuto. Mi sento alla pari con chi, anche se non da qui, vive la fedeltà di un incontro, la fatica di tenere i contatti… noi lo abbiamo incarnato in un modo particolare come famiglia, ma mi rendo conto che non è da tutti».
Guardando al passato, c’è qualcosa che rimane più di altro?
Matteo: «Più di tutto per noi è stato importante come siamo partiti: un gruppo di amici, nel 1990, che avevano scelto di condividere una vita comunitaria coinvolgendo amici con disabilità. Nelle varie trasformazioni che Il Carro ha dovuto affrontare (avvicendamenti, cambi di vita personali, nuove norme e luoghi differenti) condividere il quotidiano, la responsabilità e il peso inevitabile è quello di cui abbiamo sentito di più la mancanza. Certo era difficile dare per scontato che fosse una condizione durevole; non trovare la modalità giusta di coinvolgere qualcuno è stato un nostro limite. Ma se c’ è una cosa che abbiamo imparato e alla quale abbiamo dovuto adeguarci è che le cose vanno in una loro direzione a prescindere dalla nostra volontà».
Ivana: «Siamo nati in un modo, in sei poi in nove, poi in due… ci siamo sposati, poi una famiglia, poi una struttura, poi gli operatori… i dipendenti, l’organizzazione, la necessità di cambiare i ruoli, i responsabili professionisti… è stato un adattarsi continuo a richieste sempre nuove, cercando sempre di rendere la situazione migliore possibile, dando forme e contenuti indispensabili alla nostra esistenza ma mantenendo una costante, un filo rosso, che garantisse il mantenimento di uno sguardo diverso, di attenzione a quel che per noi era importante. Mi ripetevo sempre le parole di don Benedetto Tuzia (era parroco a santa Silvia, la parrocchia di riferimento di due comunità di Fede e Luce e ha seguito con determinante e determinata partecipazione la nascita del Carro ndr) di avere pazienza, che non era vano quel che stavamo facendo. Tanta fatica… non ho voluto lasciare il mio lavoro che mi sembrava importante per me e la mia famiglia (e ne sono ancora convinta). In passato, al casale sulla Portuense che avevamo in comodato d’uso c’erano poche risorse, la casa era un po’ fatiscente. Ma il vivere era così comunitario e bello che mi ha nutrito tanto anche per gli anni a venire. Maria e Francesca sono nate che stavamo ancora lì. Arrivando qui cambiava tutto. È stato faticoso adeguarsi ma necessario».
Come va il presente?
Matteo: «Condizionato inevitabilmente dalla pandemia. Stare in campagna ci ha un po’ sollevato ma siamo stati sommersi da regole sanitarie senza nessun sostegno da parte del pubblico. Tutte le spese sono state a nostro carico. E per i vaccini agli ospiti una vera odissea, che ora ricomincia con la terza dose. Assimilati per le regole ad una RSA, non essendolo però nella sostanza, come per tante questioni normative in passato, tutto è stato più complicato».
Ivana: «Durante lo scorso anno mi sono sentita proprio abbandonata… un periodo bruttissimo che ha avuto il culmine con la morte di Alberto… pensare che se ne sia andato per il covid preso per un ricovero in ospedale, fuori da qui, è davvero molto difficile. Certo rimane un miracolo anche che il virus non sia entrato in casa, con gli operatori che comunque entrano ed escono… sono stati molto presenti, hanno sempre dimostrato una grande unità. Ma, bisogna dirlo, è stato un bruttissimo periodo».
Matteo: «Ecco, in effetti, dopo questo ultimo anno e mezzo così difficile, soli senza alcun aiuto… ho pensato che almeno questo riconoscimento un po’ riscatta quanto abbiamo passato».
Uno sguardo al futuro?
Matteo: «Ora che Il Carro viene indicato, non per forza come un modello ma come qualcosa di senso e significato possibile, credo sia un impegno da sentire e da vivere. Per sdrammatizzare, se pensavo di rallentare, ora che ho quasi 63 anni, adesso mi pare proprio di non poterlo fare! Cosa succederà quando non ce la faremo più io e Ivana?».
Ivana: «Dobbiamo pensare al dopo di noi… lo dico sempre…».
Matteo: «Abbiamo vissuto giorno per giorno cercando di entrare nelle situazioni, e affrontarle man mano che venivano… Per ora sono interrogativi, non hanno un’attualità, ma bisogna porseli e capire verso cosa lavorare. Non mi immagino tanto un dopo… più un accanto. Certo dopo questo periodo le prospettive economiche non sono tanto rosee. Sono 30 anni che dico che è un miracolo che il Carro sia in piedi, ora le difficoltà sono maggiori. Ma sappiamo che la provvidenza c’è. Volendo essere realistici probabilmente non resterà così, i cambiamenti ci saranno come in passato: una famiglia che continui nella medesima modalità della nostra non sarà facile. Ma sarà importante continuare a camminare con uno stile acquisito, non per forza uguale. Già ci basta che rimanga l’idea di Carro… le persone cambiano, quelle che viviamo sono realtà umane e cambiano: accompagniamo la storia e vediamo dove ci porta».
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