Nel villaggio di Kipengere, tra le foreste lussureggianti della regione di Njombe, nel sud della Tanzania, opera la missione cattolica di “baba” (padre in lingua swali) Camillo, il frate trentino che, coadiuvato da padre Guido Douglas e da un nugolo di suore benedettine, coordina le attività delle scuole e dell’orfanotrofio di una comunità di 35 mila anime: qui, a oltre 2200 metri di altitudine, tra gli immensi altopiani dell’Africa orientale, non solo tutto ciò di cui la comunità (dedita ad agricoltura, pastorizia, artigianato, baratto) necessita, viene prodotto, ma sono state costruite scuole, alloggi per insegnanti e studenti, spazi ricreativi per i più piccoli, due asili nido e un presidio ospedaliero. Non è stato facile. Prima dell’arrivo di padre Camillo, i bambini e i ragazzi del villaggio, non potendo frequentare la scuola, non imparavano né a leggere né a scrivere: i sentieri da percorrere, le asperità delle alture e le lunghe distanze rendevano impossibile raggiungere gli istituti a valle, insieme a tutti gli altri coetanei.
Nel suo peregrinare per migliaia di chilometri in visita alle comunità locali, baba Camillo, missionario della Consolata di Torino che da oltre cinquant’anni vive in Africa, incontra gli alpini di Bolzano e racconta a Claudio Maccagnan, capogruppo delle penne nere altoatesine, aneddoti e storie di vita di queste terre. La tenacia e la grandissima umanità del sacerdote – che con la comunità di Kipengere è riuscito a portare laddove nulla c’era un’azienda agricola, una fabbrica di stufe a legna e officine di falegnameria, idraulica, saldatura e meccanica – tocca a tal punto la sensibilità degli alpini da far nascere una collaborazione che dura da oltre 35 anni. Dopo i primi viaggi, Claudio comprende che ciò che serve è garantire l’accesso allo studio, per lo meno elementare, ai minori.
Rientrato in Italia, Maccagnan raduna i compagni e, insieme, organizzano sul territorio iniziative tese a finanziare il “progetto Africa”; è un vero piano, il cui primo passo è la costruzione di una scuola secondaria per falegnami nel villaggio di Igosi, a 8 km dalla Missione. Dal nostro Paese partono macchinari e mezzi necessari al funzionamento delle officine: squadratrici, bindelle, piallatrici e altri strumenti, di seconda mano o dismessi dalle scuole professionali del trentino, bastano per concludere in tempi record il primo istituto. Si tratta, poi, di ristrutturare le 17 scuole elementari della missione dislocate nei vari villaggi. «I bambini non potevano studiare in strutture pericolanti e prive di servizi igienici – ricorda Claudio – rischiavano incidenti o malattie in mezzo a pavimenti pieni di buche e serramenti e tetti di lamiere arrugginite. Inoltre, nel villaggio di Samaria, una tromba d’aria aveva ridotto un’intera ala di un edificio in un ammasso di macerie: per miracolo, solo pochi bambini riportarono lievi ferite». Le penne nere decidono così che, tempo qualche anno, le scuole della missione di Kipengere sarebbero rinate.
I viaggi si intensificano sempre più e Claudio, che nel frattempo ha coinvolto tutta la famiglia, nel febbraio del 2010 durante la visita al villaggio di Mwilamba per programmare il lavoro di ristrutturazione della scuola, incontra con la moglie Nora due allegri bambini della comunità. “Il più mingherlino portava in spalla il compagno, con la sua stessa divisa, da cui capii che erano scolari di ritorno dalle lezioni: fui così colpito dalla gioia dei loro occhi, che non vidi che il piccolo sulle spalle era senza gambe” ricorda l’alpino, che solo più tardi conoscerà la storia di Ibrahimu.
Durante le stagioni più rigide – racconta baba Camillo – le famiglie che abitano i villaggi dell’altopiano usano scaldare le “njumba”, una sorta di capanna o struttura in mattoni, con un focolare centrale: in una notte particolarmente fredda, Ibrahimui si avvicina troppo alla fiamma e i vestitini prendono fuoco. Trasportato al più vicino ospedale, l’equipe di medici volontari europei non riesce a evitargli l’amputazione: i danni agli arti inferiori si rivelano irreparabili. Un paio di anni dopo, una volta giunto in età scolare, Ibrahimui avrebbe dovuto percorrere oltre 3 chilometri per presentarsi in classe, ma la famiglia non può permettersi un trasporto adeguato, né una carrozzina speciale, di quelle idonee ad attraversare i sentieri della zona. È Justo, il compagno di gioco di Ibrahimui, a prendersi l’impegno di accompagnarlo, giorno dopo giorno, così come può, caricandoselo sulle spalle.
«Di fronte ai sacrifici di questi bambini, non potevano rimanere inermi – spiega commossa Nora, la moglie di Claudio – e ci siamo incaricati di fare costruire in loco una carrozzina su misura per Ibrahimu, in modo che per il successivo settembre, alla riapertura delle scuole, il piccolo avrebbe potuto frequentare le lezioni.»
A settembre la coppia torna in Tanzania, questa volta insieme alla nipotina Noretta. «Quando consegnammo la carrozzina, la stagione delle piogge era già iniziata: il mezzo caricato sul pick-up della missione a stento teneva la terra rossa delle piste dei monti tanzaniani. Quando ci presentammo a casa di Justo, il bambino si era già avviato con Ibrahimu verso scuola – ricorda Nora, rivivendo l’emozione del momento in cui le figure dei due bambini inzuppati spuntano dal sentiero – Appena dalla jeep fu scaricata la carrozzina, Ibrahimu, incredulo e disorientato, si illuminò, attratto dal colore dei ‘parafanghi’ disegnati sul nuovo mezzo. Quell’asante sana (grazie mille) pronunciato dai bambini valse ogni sforzo».
Oggi gli alpini di Bolzano continuano a portare aiuti in Tanzania: baba Camillo ha ceduto la guida della missione, ora parrocchia, a padre Guido, ma l’impegno delle penne nere è sempre focalizzato sulle scuole, con una particolare attenzione alla disabilità motoria dei piccoli che, avendo subito traumi, non possono partecipare alle attività dei coetanei e condividere con loro le esperienze di crescita. E questo solo perché non possono procurarsi i mezzi necessari.
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