Non hanno avuto dubbi i genitori di Silvia a scommettere sul bene che la figlia avrebbe potuto ottenere chiedendo di rivedere la sua categoria di inabilità al lavoro data dalla certificazione di invalidità al 100%. Qualche dubbio in più, hanno ammesso, lo hanno avuto quando si sono ritrovati a decidere dove Silvia avrebbe lavorato. In ballo c’erano la distanza da casa con «un’ora e un quarto di durata del viaggio prendendo treno, metropolitana, autobus, più un tratto a piedi e il fatto che il negozio si trovasse all’interno di un centro commerciale, potenzialmente rumoroso e stancante». Per arrivare all’importante decisione «è stata fatta una riunione di famiglia» nella volontà costante «di coinvolgere i fratelli nei momenti decisionali». E hanno optato, tutti insieme, per la destinazione raggiungibile con i mezzi pubblici anche se più distante.
Non è stato semplice decidere ma tutto il percorso educativo affrontato da Silvia proprio a questo mirava e nessuno voleva che andasse perduto.
Ma «cos’ha Silvia che non va?». E perché il traguardo dell’iniziale contratto a tempo determinato è stato festeggiato più che una laurea?
Silvia è una giovane di bell’aspetto senza una diagnosi precisa. Da piccola era soprattutto il ritardo del linguaggio a preoccupare i suoi genitori, Paola e Claudio Freschi che, in seguito, hanno dovuto accettare e confrontarsi con una diagnosi di ritardo intellettivo medio grave. Ma «vedere anche quel che non piace, la disabilità della propria figlia e i suoi limiti, ha significato non arrendersi o tarparle le ali. Anzi! Proprio il partire dal dato di realtà ci ha permesso di far pace con ciò che non riesce a fare (fino a sorriderne e a prenderla in giro) e spingere al massimo su quello che può sviluppare». Così se la scelta della scuola per aiuto cuoco dell’Anffas dopo le scuole medie «è costato tanti pianti, sembrando una resa ai limiti intellettivi di Silvia» alla fine si è rivelata «la strada vincente per una migliore accettazione di sé e per mettere le basi concrete per il suo futuro lavorativo». La scuola prevedeva tirocini scolastici annuali per diverse mansioni lavorative che comportavano la necessità di confrontarsi con tante persone e realtà differenti, da accettare e da cui farsi accettare, e – cosa non secondaria- la necessità di acquisire altre e decisive autonomie come l’utilizzo dei mezzi pubblici per raggiungere ogni nuovo luogo di lavoro. «Dovevamo placare l’ansia di saperla in giro per Milano e siamo diventati cellulare dipendenti!» ricorda la mamma Paola che l’ha guidata, in tanti piccoli passi, in metropolitana, per stazioni e autobus, un tirocinio alla volta, rendendola sempre più in grado di muoversi, alla fine, da sola. Oppure seguendola al colloquio di lavoro più importante, sedendosi in fondo alla stanza e intervenendo solo quando necessario. «Silvia si è sentita sempre sostenuta e ha vissuto le diverse esperienze come la sua scuola per diventare grande, evitando così di sentirsi inferiore ai fratelli che frequentavano l’università». Paola racconta di aver ridimensionato le sue aspirazioni professionali per seguire meglio Silvia durante la sua crescita: ogni sforzo è stato affrontato nell’idea di renderla il più possibile in grado di affrontare difficoltà in un’autonomia su misura per lei.
Tutto facile allora? Niente affatto. «Silvia si è trovata catapultata in un mondo che le chiedeva delle responsabilità da adulta (timbratura del cartellino, ferie limitate a quelle concesse, ecc.) e che non coincideva con l’immagine di sé che aveva costruito nel tempo. Sono stati mesi duri, superati grazie alla sua determinazione, agli interventi della psicologa, al nostro sostegno, alla grande accoglienza e capacità di vera inclusione del personale McDonald’s».
Arriviamo così alla controparte, il datore di lavoro che, ovviamente, ha un ruolo fondamentale. Sappiamo bene che la normativa vigente impone ad ogni azienda o ente pubblico un numero preciso di dipendenti con disabilità rispetto quelli normodotati; ciò nonostante, molte aziende preferiscono pagare le multe pur di non adempire a questo obbligo. L’esperienza di Silvia e di tanti altri giovani con disabilità ci raccontano invece di buone pratiche e di realtà come questa che, aderendo alla legge con gli incentivi che comporta dal punto di vista fiscale e contributivo, danno realizzazione ad una catena virtuosa a partire da un progetto che, nel caso di Silvia, è stato redatto con il supporto del Consorzio SIR Ex Anffas attivo in Lombardia.
Silvia – in quasi sei anni di lavoro con l’azienda Euroristoro, che ha in franchising diversi ristoranti a marchio McDonald’s in Lombardia, con circa 900 dipendenti – ha sempre trovato colleghi e responsabili che hanno imparato a conoscerla e apprezzarla. Un gruppo realmente capace di «sentirsi una squadra» con persone come Silvia, e capace di misurare il lavoro sulle sue possibilità senza mai smettere di stimolarla a migliorarsi. All’inizio, racconta Debora la direttrice del Ristorante che ha lavorato con lei i primi due anni, non è stato semplice «lavorare con una bella ragazza che nessuno, se non dopo un buon dialogo con lei, immaginava potesse avere delle difficoltà». Ogni giorno tra nuove scoperte e qualche errore, scrive ancora Debora, «il suo mettersi ogni giorno in gioco permetteva alla squadra di aumentare i propri valori; è un esempio per tutti e premiarla davanti a tutti rende la squadra orgogliosa di lei». Chi la conosce da quasi sei anni, come Arianna che l’ha accolta al primo colloquio, «ha la soddisfazione di averla vista crescere, personalmente e professionalmente». E riconosce che «la presenza di Silvia nel ristorante è fonte di ricchezza umana, di sfida, di superamento dei propri limiti e abbattimento di barriere, spesso mentali e non reali. Ogni suo passo in avanti, è un grande orgoglio anche per noi, oltre che per la sua famiglia».
Dall’ottobre del 2019, Silvia è stata assunta a tempo indeterminato. Il contratto, con qualche accortezza per quanto riguarda le pause e i riposi ma per il resto sovrapponibile a quello degli altri colleghi, le offre quel margine di elasticità che nei precisissimi ingranaggi della grande azienda della ristorazione veloce non sono scontati. Ma tutti hanno avuto e continuano ad avere a cuore che il rapporto funzioni, pronti a mettere in conto le inevitabili difficoltà. Racconta il papà Claudio che «il manager, al momento della firma del secondo contratto, le ha detto che, dopo averla conosciuta bene e aver valutato positivamente le sue capacità, si impegnavano a tenerla “per sempre”, proprio come in un matrimonio. Da quando lavora – concludono orgogliosi i genitori – Silvia si sente più grande, responsabile e utile per il buon funzionamento del ristorante. Ha aumentato la sua autostima, ha allargato le sue relazioni ed ha dato un senso alle sue giornate, ricompensando tutte le nostre fatiche e aiutandoci a riscoprire il senso profondo delle cose che viviamo».
Da qualche tempo Silvia sta sperimentando anche la vita in autonomia in una casa protetta insieme ad altre persone con disabilità. Altro che scommessa, insomma… il percorso di Silvia si è rivelato un investimento assai oculato.
La catena di assunzioni
Il rapporto su L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità stilato nel 2019 dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro sottolinea che a vent’anni dalla legge n. 68/1999 (che disciplina l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità) è ancora una realtà la marginalizzazione dal mondo del lavoro, e quindi dalla società, delle persone con handicap. A farne le spese sono soprattutto quanti hanno una disabilità intellettiva: rispetto a loro, infatti, il pregiudizio di presunta inaffidabilità sembra più marcato. Si comprende quindi perché Coordown inviti aziende e datori di lavoro a superare e far superare questo stigma. Finalmente però una buona notizia: con l’ultima campagna pubblicitaria The Hiring Chain – accompagnata dalla voce inconfondibile del cantante inglese Sting in una originale filastrocca musicale – Coordown aggancia il primo anello. È l’assunzione, a fine aprile 2021, di una persona con sindrome di Down da parte della casa di moda Salvatore Ferragamo.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 155, 2021
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