«Il manicomio è un campo di concentramento, un campo di eliminazione, un carcere in cui l’internato non conosce né il perché né la durata della condanna, affidato come è all’arbitrio di giudizi soggettivi che possono variare da psichiatra a psichiatra, da situazione a situazione, da momento a momento». Così nel 1973 – introducendo il libro di Maria Luisa Marsigli, La marchesa e i demoni – Franco Basaglia descrive la realtà manicomiale. Cinque anni dopo, il 13 maggio 1978, viene emanata la legge che porta il suo nome.
E il nome è quello di un uomo che ha ispirato una delle grandi riforme del Novecento perché chiudendo i manicomi Basaglia ha traghettato la società italiana (e non solo) tra due epoche. C’è ancora molto da fare, ma tantissimo è stato fatto.
È il 1959 quando, dopo la formazione a Padova, Franco Basaglia (nato a Venezia l’11 marzo 1924) arriva all’ospedale psichiatrico di Gorizia: la destinazione segna una tappa cruciale. Divenuto direttore del nosocomio friulano con i suoi 650 ospiti, pur senza alcuna esperienza diretta negli ospedali psichiatrici, Basaglia rifiuta subito la gestione tradizionale del disagio mentale, incluse le agghiaccianti prassi dei protocolli. Assetti, regole e consuetudini manicomiali sono infatti, a suo avviso, strumenti di una violenza istituzionale in cui riconosce un meccanismo segregante, un significato classista e un chiaro intento punitivo.
Basaglia dispone così l’eliminazione dei mezzi di contenzione meccanica e le terapie di elettroshock, l’abbattimento di sbarre, grate e reti, introduce i contatti con l’esterno e gli psicofarmaci, cura la riqualificazione del personale: un insieme di interventi assolutamente anticipatori rispetto al tempo, soprattutto perché portano alla costituzione di una “comunità terapeutica”.
Quello che Basaglia fa, dunque, è rimettere – o forse mettere per la prima volta – la persona con disagio mentale al centro della scena: senza incasellarla in uno schema, finalmente la ascolta. Perché quel che manca totalmente, e che va invece avviata, è la comunicazione.
Basaglia ha le idee chiare. Lavora subito per la distruzione del sistema manicomiale, convinto che isolamento e reclusione aggravino sintomi e manifestazioni. Già nel 1964, a gran voce, ne chiede l’abbattimento: a Londra, nel corso del primo congresso internazionale di psichiatria sociale, presenta la comunicazione La distruzione dell’ospedale psichiatrico. Il titolo è inequivocabile.
Il quadro è chiaro ma il cammino del progetto è appena iniziato. Nel 1968, mentre le discussioni fervono e l’opinione pubblica inizia a conoscere questo strano dottore, Basaglia lascia Gorizia. Ha bisogno di tempo per studiare, approfondire e viaggiare: vuole conoscere altri contesti. Sarà prima a New York visiting professor in un Community Mental Health Center, poi a Parma. Nel 1971, infine, arriva a Trieste come direttore dell’ospedale psichiatrico San Giovanni. È il punto di snodo: occorre concretamente portare il disagio mentale oltre la barriera della separazione, rompendo i confini tra dentro e fuori.
Se la persona in manicomio è infatti l’esito di una reclusione che, come il carcere, vuole far scontare qualcosa separando gli individui, anche la creazione di istituti che rifiutino approcci e strumenti violenti non rappresenta una soluzione vera al problema. Già nel 1968, intervenendo a Roma al convegno La società e le malattie mentali, Basaglia ammonisce contro il rischio che la stessa comunità terapeutica, nata come esigenza di rinnovamento e rottura, si traduca in una nuova ideologia: sotto l’apparenza di rapporti democratici, le “istituzioni più tolleranti” mantengono infatti il ruolo originario di controllo sociale.
La pagina che segna la storia ha una data precisa: domenica 25 febbraio 1973 quando, qualche anno prima della chiusura ufficiale, si spalancano le porte del manicomio di Trieste.
Se tanti libri sono stati scritti da e su Basaglia (per chi voglia approfondire suggeriamo gli Scritti 1953-1980, pubblicati inizialmente da Einaudi e riproposti nel 2017 da Il Saggiatore), è un libro per bambini, Il grande cavallo blu (Orecchio Acerbo 2012) di Irène Cohen-Janca, a esprimere in maniera esemplare il senso profondo e radicale della rivoluzione partita da quella giornata. Anche grazie alle tavole di Maurizio A.C. Quarello, caratterizzate da un gioco di ombre e di colori tra bianco, grigio, nero e blu che introduce in un percorso avviato, ma certo non concluso.
Intanto nel 1976 Basaglia vince il concorso a cattedre, e viene chiamato all’università di Pavia: fino ad allora messo ai margini del mondo accademico, “il professore” non si muove. Resta al San Giovanni.
Ed è al San Giovanni che lo trova la legge n. 180 nel 1978 (Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori) di cui, nonostante le mai nascoste riserve, Basaglia non rifiuterà la paternità. Questa legge quadro – che dispone la chiusura degli ospedali psichiatrici e proibisce di aprirne di nuovi; sposta dagli ospedali al territorio (attraverso centri ambulatoriali e strutture intermedie) il fulcro dell’intervento psichiatrico; istituisce servizi psichiatrici di diagnosi e cura all’interno degli ospedali – verrà da tutti e da allora ricordata semplicemente come “la legge Basaglia”.
Il cammino non è affatto concluso, ma è all’intelligenza, alla passione e al cuore di quest’uomo – che al San Giovanni girava senza camice facendosi chiamare semplicemente Franco – che si deve la prima legge al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici. E a stabilire il principio – negato da secoli di psichiatria – che le persone con disturbi mentali hanno pieno diritto di cittadinanza.
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