Qualche anno fa un quarantenne svizzero si fece tatuare sulla schiena un disegno da un artista belga: divenne una tela vivente, come lavoro iniziò a stare seduto a schiena scoperta per ore dentro i musei per farsi ammirare. Per questo film, la regista tunisina Kaouther Ben Hania si è ispirata proprio a questo fatto, ma lo ha sviluppato in maniera diversa e creativa per affrontare un preciso discorso politico. In The Man Who Sold His Skin, a mettere a disposizione la propria schiena è un esule siriano scappato in Libano, che come essere umano non potrebbe andare da nessuna parte senza visto, ma come opera d’arte da esporre, cioè praticamente come merce, ottiene la possibilità di andare in Europa, in particolare in Belgio, dove vuole recarsi per motivi sentimentali (la vicenda romantica è meno intrigante, ma necessaria per dare corpo al film). Il protagonista Yahya Mahayni, premiato a Venezia per il ruolo di Sam Ali, diventa volutamente una pedina di un gioco crudele che lo usa come gingillo da esporre a uso e consumo dell’opulenta società occidentale. Sam sa bene a cosa deve rinunciare, ma sa anche ciò cui ambisce, perché consapevole che un essere umano, nonostante quel che pensano i collezionisti d’arte e gli avvocati, possiede sentimenti e imprevedibilità che lo distinguono nettamente da un oggetto inanimato. Sam Ali vende il suo corpo, ma non include nella transazione la sua dignità. È una presenza reale che si mostra agli spettatori; anche se non può essere toccato, la sua materialità corporea è anche un modo di portare concretamente davanti agli occhi ciò che altrimenti resta un’immagine bidimensionale sui giornali e in televisione. Sembra un manufatto di arte politica, ma a osservarlo bene è qualcosa con cui è più difficile fare i conti: è un vero essere umano.
Gli altri film di Venezia 77:
Oaza di Ivan Ikić
Listen di Ana Rocha de Sousa
The Man Who Sold His Skin di Kaouther Ben Hania
Final Account di Luke Holland
The Best Is Yet To Come di Wang Jing
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