Il regista Luke Holland, mancato pochi mesi fa, è legato alla Shoah dai suoi nonni materni, morti in un campo di concentramento. A partire dal 2008, decide di intervistare delle persone comuni che avevano vissuto e operato durante il regime nazista. Le ore di materiale raccolte sono confluite in quello che è diventato il suo ultimo progetto, Final Account.
Quelli che vediamo intervistati appaiono come simpatici vecchietti e vecchiette; non erano gerarchi, non avevano ruoli di potere, ma erano parte di un ingranaggio che, con il contributo di tutti, ha provocato una delle più grandi tragedie della storia umana. È lecito pensare che abbiano avuto parecchio coraggio ad affrontare pubblicamente il loro oscuro passato; poi però ognuno lo ricorda e interpreta in modo diverso. È illuminante osservare come ciascuno rielabori in modo del tutto soggettivo il proprio vissuto e la storia della propria nazione. Non ci sono quasi mai patetici “non ricordo”; ognuno cerca di spiegare con chiarezza e lucidità come e perché aderì al nazismo, in cosa credeva, quali azioni ha compiuto, infine anche a confessare se è pentito o no di ciò che ha fatto. Nessuno ammette che sia stato giusto sterminare milioni di ebrei, Rom, portatori di disabilità; eppure c’è chi afferma che sarebbe stato giusto espellere tutti dal paese, o chi nega che i morti siano stati così tanti. Alcuni videro sparire o morire persone che conoscevano; nessuno di loro, all’epoca, mise in discussione le idee di Hitler e le seguì con convinzione finché potè, finché non fu troppo tardi.
Ci sono tante parole, interviste con domande dirette e risposte raramente elusive, ma la delicatezza dei temi trattati impone di dare altrettanta attenzione, se non di più, al linguaggio non verbale: gli occhi, le pieghe della bocca, le esitazioni, il tono della voce aiutano a dare il giusto peso a ogni racconto che è un pezzo del puzzle degli stermini nazisti. Il regista non vuole porre noi spettatori in una condizione di superiorità attraverso cui capire, se non proprio giudicare, i comportamenti altrui; il vero obiettivo è metterci di fronte a uno specchio perché quelle persone anziane, oltreché il passato, sono anche un futuro sempre potenziale, sono ciò che saremmo potuti essere noi nelle loro stesse condizioni storiche e sociali, e potremmo ancora diventare se quelle condizioni si dovessero ripetere. A guardarlo con attenzione, è un film su tutti noi, su versioni possibili di noi stessi, per farci ragionare su ciò che potremmo diventare e aiutarci a non ripetere più gli errori del passato.
Gli altri film di Venezia 77:
Oaza di Ivan Ikić
Listen di Ana Rocha de Sousa
The Man Who Sold His Skin di Kaouther Ben Hania
Final Account di Luke Holland
The Best Is Yet To Come di Wang Jing