Non sempre l’abito fa il monaco, ma di sicuro l’abito partecipa a costruire l’identità personale ed è un indiscusso strumento della nostra comunicazione. È così vero che uno dei modi più offensivi (e più praticati) di umiliare, se non di annientare, una persona è denudarla, strappandole di dosso l’immagine in cui si rassicura e si riconosce.
Una ricerca molto originale sull’argomento ha scoperto che indossare una t-shirt di Superman poteva dare alle persone una marcia in più. Nello studio, svolto da Karen Pine della Hertfordshire University, i soggetti del campione (tutti studenti) indossavano una maglietta del supereroe oppure altre t-shirt. I risultati mostrano che coloro che indossavano la maglietta di Superman, rispetto agli altri, si sentivano più attraenti e in generale migliori dei compagni. Inoltre, quando era stato chiesto loro di stimare quanto peso avrebbero potuto sollevare, coloro che indossavano la maglia di Superman pensavano di essere più forti rispetto a coloro che indossavano altre t-shirt.
Similmente, molti altri esperimenti nel corso dei decenni hanno dimostrato quanto l’abbigliamento influenzi direttamente e inconsciamente la percezione che abbiamo di noi stessi e la percezione che gli altri hanno di noi, e non c’è alcun motivo di credere che una persona con disabilità non abbia il medesimo desiderio di vestirsi in modo bello e originale.
La disabilità è parte della condizione umana, ma il pregiudizio ci fa vedere le persone con disabilità come una minoranza, un mondo a sé, una categoria uniforme, asessuata, che quindi ha bisogno solo di abiti comodi privi di aspirazioni estetiche. Le persone con disabilità, invece, sono semplicemente persone e come tali hanno il diritto di esprimere la loro unicità anche attraverso il vestire.
Può sembrare scontato, ma la condizione di “disabile” a livello di percezione sociale, passa anche dall’immagine. Un motivo ulteriore di volerci più bene e di permettere agli altri di volersi più bene: abbigliamento e cura della persona sono diritti che non devono essere preclusi.
I meno giovani ricordano bene di quando c’erano il vestito della domenica e quello di tutti i giorni. Si andava alla messa col vestito della festa, poi in passeggiata. Era bello sentirsi bene nei propri panni, davano sicurezza la cura che c’era stata e gli sguardi di approvazione che incrociavamo. Un granello di narcisismo da mantenere e trasmettere.
«È domenica anche dentro di me – ha scritto Fernando Pessoa – Anche il mio cuore va in una chiesa che non sa dov’è, e ci va con un completo di velluto da bambino, con il viso che arrossisce alle prime impressioni mentre sorride senza occhi tristi da sopra il colletto troppo grande».
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 149, 2020
SOMMARIO
Editoriale
Se lo diceva Coco Chanel... di Cristina Tersigni
Focus: Moda e disabilità
La rivoluzione copernicana di Lucas di Giulia Galeotti
Quel che l'abito fa di Nicla Bettazzi
Vedersi in vetrina di Cristina Tersigni
Jillian, la divina di Giulia Galeotti
Intervista
Tranquilla e soddisfatta di me stessa di Francesca Cabrini
Testimonianze
Quaranta occhi puntati su di te di Silvia Gusmano
Dall'archivio
Grazie per avermelo fatto fare da sola di Una mamma
Associazioni
Sfilate da sogno di Cristina Tersigni
Fede e Luce
Chi risponde alle domande di Daniela Guglietta
Spettacoli
Il corpo dell'amore di Cristina Tersigni
Rubriche
Dialogo Aperto n. 149
Vita Fede e Luce n. 149
Libri
La nostra casa è in fiamme di Greta Thunberg
Imperfetta di Andrea Dorfman
Che cos'è una sindrome? di Giuseppe Colaneri
La bambina morbida di Maria Cristina Toccafondi
Diari
Negozi e pantaloni di Benedetta Mattei
Per le strade di Roma di Giovanni Grossi