Gli ultimi quindici anni della carriera da regista di Fernand Melgar sono stati dedicati a raccontare l’immigrazione in Svizzera, in particolare i rapporti problematici degli immigrati con la legge e la burocrazia elvetiche (tutti i film, per chi fosse interessato, sono disponibili sul suo canale YouTube). Tuttavia con l’ultimo lavoro, À l’école des Philosophes (2018), Melgar ha rivolto la macchina da presa verso un’altra categoria parimenti nascosta agli occhi della gente: le famiglie con bambini portatori di disabilità fisiche e mentali più o meno gravi, affidati a istituti scolastici. Ed è proprio la scuola l’epicentro della pellicola.
Prima di iniziare a raccontare l’anno scolastico di una nuova classe composta da bambini con caratteristiche molto diverse eppure destinati a integrarsi, il regista si concentra sugli adulti, i genitori e gli insegnanti. Ogni bambino ha dietro di sé una famiglia, genitori che con timore e speranza aprono il cuore al direttore della scuola, spiegano la natura del rapporto con i loro figli, attendono rassicurazioni sui progressi pratici e caratteriali che il percorso scolastico potrà offrire. Poi però la scena viene rubata dai bambini.
Albiana, Chloé, Louis, Kenza e Léon sembrano i componenti di una classe impossibile da gestire, troppo scalmanati o viceversa troppo apatici, portatori di patologie difficili da decifrare, per nulla contenti di trovarsi in un luogo che prevede regole cui non hanno alcuna intenzione di sottostare. L’abilità e la pazienza delle insegnanti però sono più forti di ogni ostacolo. E questo vale anche per la giovane stagista che è lì per seguire i bambini ma anche per imparare un mestiere che sarà molto più di qualche riga da aggiungere al curriculum. Ogni problema riscontrato nei piccoli alunni viene analizzato e affrontato con cura: nel giro di qualche mese, i progressi sono tali che anche i genitori apprensivi e preoccupati di inizio film possono sorridere e commuoversi costatando che i loro figli, come qualunque altro bambino, sono pian piano capaci di fare grandi progressi.
Il regista ama il racconto da cinema verità, si nasconde completamente dietro la macchina da presa e ci fa credere che tutto ciò che vediamo sia esattamente come sarebbe se lui non ci fosse. Chissà invece se i bambini sono stati influenzati dalla sua presenza, discreta tanto nelle aule quanto nei ritratti girati nelle loro case; influenzati sono forse insegnanti e genitori, ma il solo fatto di avere accettato di farsi filmare, e di far filmare i loro figli, denota una grande fiducia nel lavoro del regista, probabilmente ripagata con un alto livello di sincerità.
E così ci piace pensare che la gioia irresistibile che i bambini emanano a fine pellicola ci sarebbe stata comunque. E che non siano le riprese di un regista, ma l’umanità delle persone a creare una comunità da cui nessuno sia escluso.
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