Del sussidiario delle elementari non ricordo quasi nulla, se non un’illustrazione che dominava – proprio a metà testo – due pagine: Le età dell’uomo. Mi affascinava quella trasformazione che seguiva dalla culla all’età-con-bastone le fasi della vita umana, e che accostavo a un meraviglioso filmato sull’evoluzione dei bruchi in farfalle visto a scuola. Crescendo, però, ho scoperto che quelle tappe che dovrebbero accompagnarci tutti, in realtà non lo fanno: c’è infatti chi non ha diritto alle “età dell’uomo” perché da quando nasce a quando muore viene intrappolato in una carta moschicida.
In occasione della festa della mamma un noto quotidiano italiano dedicava un pezzo alle madri dei “figli eterni bambini”. Ho ripensato al sussidiario della mia infanzia e – ancora una volta (perché quel quotidiano, che per tante altre cose ha visione e coraggio, non è certo un’eccezione) – sono rimasta turbata da come le persone con disabilità vengono viste sempre uguali a se stesse, immutabili nel tempo.
Al di là del paternalismo, infatti, considerare chi ha una disabilità un “eterno bambino” significa negargli il diritto di crescere, diventare adulto e invecchiare, come tutti. Perché nel tempo bisogni, necessità e desideri della persona con handicap cambiano – e quel cambiamento va ascoltato.
Qualche decennio fa sollevò la riprovazione di molti la richiesta rivolta ai medici da una coppia inglese di bloccare la crescita della loro figlia con un handicap gravissimo. I genitori la motivarono dicendo che solo così avrebbero potuto prendersene facilmente cura, ma altri ci lessero invece la frattura tra vite che avrebbero fatto normalmente il loro corso e vite che potevano essere potate a comando. Discutibilissima certo, ma la richiesta (forzando un po’) non portava alle estreme e inaccettabili conseguenze la mentalità degli eterni bambini?
Lo scorso anno abbiamo dedicato un focus di Ombre e Luci alla vecchiaia. Riflettendo su come per lo Stato, la società e la medicina non esistano anziani con handicap, abbiamo raccontato alcuni dei pochi – ma virtuosissimi – progetti, studi e realtà che invece iniziano ad andare in senso opposto. Perché riconoscere che Emilio è un uomo con sindrome di Down affetto dal morbo di Alzheimer significa riconoscere che Emilio ora, a 67 anni, è anche un paziente con bisogni e diritti specifici.
Non sono inutili elucubrazioni ma piuttosto la necessità di cambiare lo sguardo per cambiare le cose.
Ricordo ancora, qualche tempo fa, la telefonata euforica di una mamma: ci invitava a cena perché la figlia era “diventata signorina”. Emanuela non vede, non parla, non cammina, e io non riuscivo a capire per cosa dovessimo rallegrarci: da quel momento la sua vita già complicata sarebbe stata accompagnata da dolori mensili, fastidi e impicci ulteriori. A cena ci sono andata, ma per fortuna prima di sedermi a tavola ho capito che io mi stavo concentrando sulla disabilità di Emanuela, mentre la madre era focalizzata sulla sua vita che aveva subito un passaggio. Come quella di tutti.
Disegno di Sara Truini, “Le età dell’uomo”, 2020
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