Le avvisaglie che qualcosa di bello stava per accadere si sono avute a fine novembre 2017: sulla copertina di Vogue Olanda – per la prima volta nella storia dell’autorevole testata di moda – faceva la sua comparsa una persona con sindrome di Down. Era Micah, un bimbo biondo di tre anni in posa con la sua bionda mamma, di professione modella e attrice. «Che onore» scrisse lei, Amanda Booth, su Instagram.

Un onore per cui la ragazza si è molto impegnata. Da tempo, infatti, Amanda e il marito Mike Quinones si battono per i diritti delle persone con disabilità, e per il loro pieno riconoscimento. La coppia, ad esempio, sapendo benissimo che una foto vale più di mille proclami, ha attivato la pagina Instagram LifewithMicah dedicata al figlio, per dimostrare come un bambino con la sindrome di Down possa condurre una vita normale, esattamente come quella di tutti gli altri piccoli.
Grazie alla copertina di Vogue e alle interviste che sono seguite, abbiamo saputo che alla notizia di aspettare un bambino la coppia rifiutò esami e screening prenatali perché – ha raccontato Amanda – «non ci avrebbero cambiato nulla». Solo alla nascita di Micah i genitori hanno dunque scoperto la presenza di qualche problema anche se, oltre agli occhi a mandorla, la salute del piccolo non presentava nulla che facesse immediatamente pensare alla trisomia 21. La diagnosi è arrivata quando Micah ha compiuto tre mesi ma dopo un momento iniziale di confusione tutto è andato avanti serenamente: «All’inizio ci siamo preoccupati, abbiamo passato in rassegna le terribili cose che avrebbe potuto dover affrontare. Ma poi, a mano a mano che i giorni scorrevano, ci pensavamo sempre di meno. Il nostro piccolo uomo è così incredibile che io dimentico completamente la sua sindrome».

L’allegra e glamour copertina di Vogue è stata dunque una tra le tappe di un cammino di normalità dentro e fuori le mura domestiche: un cammino di accettazione vissuta appieno innanzitutto dai genitori di Micah.
Il vero giro di boa, però, l’autentica rivoluzione è accaduta qualche mese dopo quella copertina. E precisamente nel febbraio del 2018 quando si è saputo che un bimbo con la sindrome di Down era stato scelto come testimonial di una campagna pubblicitaria rivolta a tutti i bimbi, a prescindere dalla loro mappa cromosomica, colore della pelle o status sociale.

Dal 2010, infatti, la Gerber, gigante indiscusso degli omogeneizzati in Nord America (e non solo), tramite un concorso sceglie il volto del bambino testimonial dell’anno. Volto che finisce sulle pubblicità, sulle varie campagne e sulle confezioni dei suoi prodotti. Ebbene nel 2018 a vincere il concorso di spokesbaby dell’anno fu Lucas di Dalton in Georgia, 18 mesi e un cromosoma in più.

Che tra le centoquarantamila foto ricevute, la Gerber abbia scelto il suo come volto più adorabile d’America ha stupito innanzitutto la madre del piccolo, Cortney Warren, che alla stampa ha poi dichiarato di aver inviato per gioco uno scatto del figlio seduto a gambette incrociate, camicina verde e papillon a pois, lo sguardo deliziato. Le congratulazioni sono arrivate da ogni parte – da Ann Turner Cook, ultra novantenne, per decenni volto della Gerber con un’immagine scattata a 5 mesi, fino a una donna rimasta anonima che sui social ha voluto ringraziare pubblicamente la ditta: «Come mamma incinta di un bimbo con un cromosoma in più, la notizia di Lucas mi ha riscaldato il cuore».
Quando in quel febbraio del 2018 le agenzie batterono la notizia, un nostro amico giornalista propose al direttore della sua testata di scrivere un commento. «No, basta, non se ne può più – rispose il capo – oramai quella dei Down è una moda». Resta il dubbio se egli abbia mai veramente compreso quel che il giornalista gli stava dicendo, e cioè che il punto era proprio quello: una persona con sindrome di Down era stata scelta dai pubblicitari come emblema per la moda di tutti. Sottigliezze di redazione?

Certo, non ci illudiamo. Viviamo ancora nei tempi in cui hanno largo credito i genitori che vogliono modificare chirurgicamente i tratti somatici dei loro figli per non renderne immediatamente visibile la disabilità (come è avvenuto più di una volta in Gran Bretagna negli ultimi anni). Viviamo ancora nei tempi in cui – lo hanno raccontato, tra le altre, Alessandra Di Pietro e Paola Tavella in Madri selvagge (Einaudi 2006) – devi giustificarti per non aver evitato un figlio con la sindrome di Down dato che la scienza e la medicina ti hanno messo in grado di farlo. Tempi in cui bullizzare un minore con disabilità è la regola, mai l’eccezione.
Dunque non ci illudiamo. Ma la rivoluzione di Lucas, testimonial per tutti, ha spalancato scenari meravigliosi. E finalmente umani.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 149, 2020

Ombre e Luci 149 copertina

SOMMARIO

Editoriale
Se lo diceva Coco Chanel... di Cristina Tersigni

Focus: Moda e disabilità
La rivoluzione copernicana di Lucas di Giulia Galeotti
Quel che l'abito fa di Nicla Bettazzi
Vedersi in vetrina di Cristina Tersigni
Jillian, la divina di Giulia Galeotti

Intervista
Tranquilla e soddisfatta di me stessa di Francesca Cabrini

Testimonianze
Quaranta occhi puntati su di te di Silvia Gusmano

Dall'archivio
Grazie per avermelo fatto fare da sola di Una mamma

Associazioni
Sfilate da sogno di Cristina Tersigni

Fede e Luce
Chi risponde alle domande di Daniela Guglietta

Spettacoli
Il corpo dell'amore di Cristina Tersigni

Rubriche
Dialogo Aperto n. 149
Vita Fede e Luce n. 149

Libri
La nostra casa è in fiamme di Greta Thunberg
Imperfetta di Andrea Dorfman
Che cos'è una sindrome? di Giuseppe Colaneri
La bambina morbida di Maria Cristina Toccafondi

Diari
Negozi e pantaloni di Benedetta Mattei
Per le strade di Roma di Giovanni Grossi

La rivoluzione copernicana di Lucas ultima modifica: 2020-03-02T06:15:32+00:00 da Giulia Galeotti

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