Il cinema non cambia il mondo, neppure quando registi e autori si illudono di poterlo fare. In qualche occasione, però, i film possono contribuire a risvegliare le coscienze, illuminare aspetti poco noti della storia e della società, favorire interventi politici. Sarebbe sbagliato dire che la chiusura dei manicomi, disposta in Italia con la legge 180 del 1978, sia stata una conseguenza del documentario Matti da slegare di tre anni prima, ma è indubbio che quest’opera abbia aiutato non poco Franco Basaglia, promotore di quel provvedimento, a far conoscere un tema finalmente affrontato senza reticenze.
«I personaggi di questo film esistono veramente»: la frase segue i titoli di testa del documentario diretto a otto mani da Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Personaggi, non persone: perché Matti da slegare è costruito sulle testimonianze orali di chi ebbe il compito non facile di scalfire l’ignoranza dell’epoca, tutti sapientemente individuati per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica ancora convinta che i manicomi fossero popolati da uomini e donne indegni di essere inclusi nella società. Gran parte del documentario presenta le interviste ai pazienti dell’ospedale psichiatrico di Colorno, cercando di cogliere una presunta spontaneità senza filtri che in realtà è ben indirizzata dagli interventi e dalle domande dei registi, secondo i dettami del cinéma vérité: apparentemente senza addestramento, ma avendo già bene in testa cosa e come sarebbe stato raccontato e quale effetto avrebbe dovuto stimolare nello spettatore.
L’esuberanza del giovane Paolo, la cieca passione politica di Angelo, la fiera risolutezza di Clelia: visti con gli occhi di oggi – abituati come siamo ai comportamenti sguaiati e sopra le righe anche di tanti personaggi pubblici – appaiono forse solo leggermente disadattati, e dimostrano di poter stare davanti a una macchina da presa. Non tutti si esprimono chiaramente, alcuni portano sul proprio corpo le conseguenze delle malattie o della lunga degenza, ma finalmente possono mostrarsi senza vergogna.
Si sente spesso pronunciare il concetto di irrecuperabile, perché la malattia mentale era considerata una condanna alla quale non si poteva scampare, finché non scopriamo che un “irrecuperabile” ha potuto studiare, che un altro ha iniziato a lavorare; ascoltiamo testimonianze persino un po’ meravigliate, con un linguaggio che oggi appare datato, di chi ha realizzato che di davvero irrecuperabile non c’è quasi nulla, a patto di non abbandonare il malato a sé stesso, e magari restituirgli quella voce da sempre negata.
Finanziato da Mario Tommasini, che fu la controparte istituzionale delle idee innovative di Basaglia durante e dopo la sua permanenza nella provincia di Parma, il documentario indica il lavoro come tema centrale per superare la realtà dei manicomi: eliminare lo sfruttamento (vicino alla schiavitù) della forza lavoro gratuita costituita dai pazienti/prigionieri fu un atto decisivo, accompagnato al lento e proficuo inserimento nel tessuto occupazionale locale. È il lavoro, nella visione dei registi, a essere centrale per restituire la dignità umana negata dal manicomio.
La potenza del documentario sta esclusivamente nelle parole, nei racconti in prima persona di chi spiega consapevolmente la propria condizione sanitaria e umana, e talvolta la paura di affrontare il mondo esterno dopo anni vissuti in reclusione. Alcuni descrivono le condizioni disumane dei manicomi, che però non vengono mostrate: lasciando l’orrore all’immaginazione, lo spettatore scopre la bontà delle idee di Basaglia più dall’esempio concreto dei risultati ottenuti che dal confronto con un sistema da abbattere perché rende le persone oggetti.
Quelle scene invisibili, anche perché in molte strutture le telecamere non furono ammesse, torneranno però nelle successive opere di finzione dei registi. Rulli e Petraglia, in veste di sceneggiatori di La meglio gioventù (2003), lungo viaggio nella storia italiana del secondo dopoguerra diretto da Marco Tullio Giordana, inseriranno come elemento fondamentale della trama il rapporto giovanile dei due protagonisti con una ragazza rinchiusa in una clinica negli anni Sessanta.
Silvano Agosti nel 2000 ha realizzato La seconda ombra, film biografico su Basaglia che riprenderà molto dell’esperienza del documentario degli anni Settanta. Impersonato da un pacato Remo Girone, Basaglia entra in incognito nel manicomio che nel 1961 andrà a dirigere a Gorizia, osservando le atrocità che vi vengono commesse; appena insediatosi, dichiara con cortese fermezza la sua intenzione di aprire le porte e abbattere i muri che separano i pazienti dalla città, per smantellare quello che gli sembra un lager. I pazienti e quasi tutti gli altri personaggi del film sono ex pazienti o lavoratori dei manicomi di Gorizia e Trieste, persone che hanno davvero conosciuto Basaglia e vissuto le sue lotte. La loro presenza – in un film che si basa su parole e fatti reali – permette ad Agosti di recuperare quel verismo che negli anni Settanta fu tanto importante, unendolo però al un sguardo poetico che ci mostra Basaglia come un sognatore capace di condividere i propri sogni con chi fino ad allora aveva conosciuto solo incubi.
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