Mi sono chiesta per giorni cosa non mi convincesse fino in fondo del documentario che Thierry Demaizière e Alban Teurlai hanno girato a Lourdes. Mi sono anche chiesta quanto sulle mie impressioni incidessero la familiarità più che ventennale che ho con questo posto e la “gelosia” nel vedere raccontato un mondo che, pur sapendo essere di tutti, sento troppo mio. Come quando ascolti la cover della tua canzone preferita e se da un lato ti piace, dall’altro lato non ti convince del tutto perché c’è qualcosa che non ti sembra al posto giusto.
L’umanità che arriva a Lourdes è esattamente così come ce la raccontano Demaizière e Teurlai. Nei racconti dei protagonisti ho rivisto e rivissuto tante storie e tanti volti che ho avuto il dono di poter accarezzare: lo strappo di un incidente stradale, la condanna di una morte annunciata, il mistero del dolore innocente, il disprezzo assoluto della vita che spinge a diversi tentativi di suicidio, la fragile tenerezza della vecchiaia, la spensieratezza violata della gioventù, la vendita del proprio corpo e la ricerca contraddittoria della propria anima, il servizio agli ammalati, i disciplinatissimi pellegrinaggi dei militari e le chiassose e coloratissime invasioni di gitani.
A Lourdes è proprio così: c’è tutto e il contrario di tutto. Dieci e lode ai registi per l’indagine antropologica sui due grandi misteri della vita umana – l’amore e il dolore – che hanno saputo coniugare e declinare, senza giudizi di sorta, con i più diversi registri stilistici, cucendo su misura, per ogni storia, un abito perfetto per taglia, modello e colore, usando la nobiltà poetica del cinema maneggiando con cura le anime. Con l’unico neo di aver svilito un po’ troppo la sacralità dei luoghi, che avrebbero invece potuto e dovuto lasciar parlare di più invece che relegare negli angusti confini del linguaggio documentario.
Quel retrogusto che all’inizio sentivo amaro ma che poi ho avvertito più dolce nel finale, nelle scene girate nelle piscine, è stato il racconto di Lourdes nella sua fisicità e nella sua luce, la mia Lourdes in quell’impasto unico di acqua, terra, aria e fuoco. Laddove Dio e l’uomo si sono incontrati fisicamente, nelle apparizioni di Maria a Bernadette, è inevitabile che i luoghi fisici abbiano molto da dire.
Mentre la Lourdes di Demaizière e Teurlai è la Lourdes dell’uomo che cerca Dio – ed ecco l’indugiare quasi ossessivo della telecamera nelle mani che accarezzano la grotta, nella via crucis, nelle processioni, nella cura dei corpi – io credo, invece, che la vera Lourdes sia quella di Dio che cerca l’uomo e che per parlargli lo chiama, con voce materna, in una grotta. “A Lourdes si sta bene perché è come tornare a casa dalla mamma e a casa della mamma tutti stanno bene” dice un saggio gitano a metà documentario. La casa della mamma a Lourdes è una grotta che quando nel 1858 Maria appare a Bernadette, una ragazzina analfabeta e poverissima, è una specie di discarica a cielo aperto, come se oggi Maria apparisse a una bambina rom a Malagrotta.
Maria chiede a Bernadette di mettersi a scavare con le mani nella melma, di sporcarsi il viso con quel fango e continuare a scavare ancora finché dal fango non cominci a sgorgare acqua limpida da bere e con cui lavarsi viso e mani. Come se Maria chiedesse alla bambina rom di prima di mettersi a scavare sotto i rifiuti di Malagrotta per far sgorgare da lì un’acqua miracolosa.
Ecco, in quella grotta dove oggi passano milioni di pellegrini, Maria è apparsa in un anfratto a forma di utero materno: quell’immagine che abbiamo visto milioni di volte sulle cartoline e che tutti colleghiamo visivamente a Lourdes, con la caratteristica statua della Vergine, realizzata su indicazione della stessa Bernadette, non compare mai nel docufilm di Demaizière e Teurlai e di certo non è un caso. Avrei desiderato più grotta celeste, più acqua che scorre, più cielo che brilla di colori a volte luminosi a volte minacciosi. Di pari passo con il merito che riconosco ai registi francesi di aver spogliato la narrazione di Lourdes di tutta quella zavorra di retorica pro e contro che abbiamo visto e sentito in tutte le salse, avrei fortemente – e anche egoisticamente – desiderato che trovassero il modo di raccontare anche la “mia” Lourdes: il mistero di Dio che chiama l’uomo senza stancarsene mai, anche quando l’uomo ha bisogno di celebrarLo con le sue opere materiali, come per il santuario che ha costruito sulla grotta e per le tante opere di razionalizzazione degli spazi per la preghiera, i ceri, l’acqua e le piscine.
Resta comunque il mio invito – per chi ci è già stato, per chi ci andrà, per chi è allergico ai pellegrinaggi – di andare al cinema a vedere Lourdes. E non intimoritevi per la folla che la anima. Non è una calca che opprime: è un popolo in cammino, un puzzle di cui voi siete un tassello insostituibile. Chiunque voi siate.
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Lourdes
2019, Francia, 95 min.
di Thierry Demaizière e Alban Teurlai