«Questo film è per tutti quelli vivono con sentimenti di solitudine, di angoscia, di sensi di colpa… Siete più belli di quanto pensate! Spero possiate scoprire la tenerezza, che non è voler giudicare o controllare l’altra persona o volerle far del bene…, ma il solo, vero e profondo incontro tra due esseri umani che si riconoscono pienamente umani, con una bellezza originaria interiore unica!».
Questo l’abbraccio iniziale che ci sentiamo rivolgere da Jean Vanier nel film a lui dedicato Le sacrament de la tendresse, fino a qualche mese fa oggetto di proiezioni e dibattiti in Francia e ora disponibile anche in dvd. Seppur sottotitolato ancora solo in lingua francese, offre una nuova, commovente occasione per conoscere o ritrovare il fondatore dell’Arche, morto il 7 maggio 2019, e di vedere realizzata quella tenerezza, di cui tanto ha parlato, nella sua lunga e feconda vita. La forma è quella di un docufilm in cui si alternano, sostanzialmente, tratti di una lunga intervista raccolta dalla regista e giornalista Frederique Bedos intorno al 2014, quando l’Arche celebrava il suo 50° anno di vita, e incontri con alcune comunità sparse nel mondo, quelle di Trosly, Betlemme e Calcutta. Film per la cui realizzazione sono stati necessari tre anni: in uno dei contenuti speciali del secondo dvd, la regista spiega che il progetto prevedeva solo una lunga intervista a Vanier. Ma che poi questi le abbia chiesto, tenendo in mano delle piccole figure di pecore in lana cotta realizzate in Palestina, di far conoscere l’amore universale che si prodiga all’Arche nel mondo e di visitare comunità come quella di Betlemme.
I temi affrontati nell’intervista possono essere già noti a chi lo ha seguito attraverso i suoi libri, le sue conferenze o nel suo costante invito alla comunione e a scegliere di farsi parte di una comunità. Allo stesso tempo però il film è impreziosito da alcuni documenti che potrebbero essere meno noti: vecchie foto del piccolo e poi giovane Jean incastonate in un album animato, pezzi di un film del 1975 di Peter Flemington (If You’re Not There, You Missed, Religious Television Associates) nei quali brilla una sua contagiosa e liberante risata (al pensare a quanti si affacciano all’Arche e fuggono con le mani nei capelli!). Troviamo foto degli inizi della vita comunitaria oppure il più recente, schietto e semplice discorso al ritiro del prestigioso premio Templeton, ricevuto nel 2015. Parte dell’intervista non presente nel film è contenuta tra i bonus e riguarda la prima parte della sua vita: la famiglia, la marina, l’università, la diversità tra essere clan o comunità, il ruolo della coscienza personale nella sua storia.
Così ripercorriamo insieme a lui i passi che lo hanno condotto a quella scelta così distante dal percorso compiuto fino al 1964, quando andò a vivere con Raphael e Philippe, fino a quel momento internati in un istituto manicomiale, in una povera e malandata casa tutta da risistemare con le loro mani. Anche quel povero cominciare segnò per i tre conviventi il modo per poter porre le basi della comunità vivendo esperienze fino a quel momento diversamente precluse a ciascuno di loro: scegliere il colore delle pareti, il tipo di mobilio, cosa mangiare e cucinare… anche male! Ma anche Jean ha potuto scoprire nuove cose di sé: la comunicazione con i due compagni era decisamente poco interessata alla politica o alla filosofia, ma era fatta di sguardi, giochi, scherzi e lacrime. Jean, già ufficiale e professore, “un tipo serio, che faceva preghiere serie”, scopriva la bellezza di ritrovare in sé il bambino, qualcosa di cui probabilmente – dice lui stesso – aveva bisogno.
Le tre realtà comunitarie visitate sono molto significative e rappresentative della varietà e unità d’intenti alla base della federazione nata da quella prima esperienza. Un modo per affacciarsi sull’Arche way of life cui accenna uno dei giovani assistenti di quella palestinese: luoghi in cui primeggia la cura della relazione e la ricerca, anche nei casi più difficoltosi, della crescita della libertà di ciascuno. Scopriamo le celebrazioni, l’incontro ecumenico a Betlemme e a Calcutta, il lavoro serio e dignitoso dei laboratori dove ognuno contribuisce alla vita della comunità (a Betlemme le realizzazioni con la lana cotta sostengono il 60% delle spese che non hanno altro finanziamento oltre a donazioni da organizzazioni straniere). Scopriamo la capacità di posare davanti alla macchina da presa delle persone con disabilità mentale, senza alcuna maschera, in piena consapevolezza, capace di comunicare anche senza tante parole. Se Trosly è il luogo della prima comunità, palestra per tutte le altre a venire, Calcutta e Betlemme emergono come luoghi dove le ferite dell’umanità si fanno prepotenti anche oltre la disabilità. Luoghi prediletti da Jean, dove ha saputo parlare, testimoniare, conquistare cuori e invitare al cambiamento. Le parole scelte dall’assistente della comunità indiana all’inizio del film ci fanno capire come incontrare qualcuno che abbia liberamente scelto di “abbassarsi”, interessarsi ai poveri lasciando l’agio e il potere che la sua provenienza sociale gli garantiva, deve aver segnato molti cuori in un luogo come Calcutta dove la casta in cui si nasce rappresenta il destino di ciascuno.
Certo questa esperienza inevitabilmente porta in sé molta fragilità e sono tante le domande che si affacciano: come è possibile continuare a realizzare istanze tanto feconde ma altrettanto poco mondane, soprattutto su scale di nazioni e popolazioni? La sentiamo anche in Jean questa preoccupazione e la vediamo in occasione del giubileo per i 50 anni dell’Arche o al ritiro del premio Templeton, quando si accalora contro la tirannia della normalità con tutte le sue illusioni e falsi bisogni che innesta in ciascuno di noi. Però, proprio in questi giorni in cui si agitano nuovi venti di guerra nelle zone mai pacificate del Medio Oriente, sentir parlare uomini e donne che hanno cambiato la loro vita scegliendo di non amare la forza e il successo a ogni costo ma di farsi forti dell’amore per l’altro rende conto della speranza che guidava Jean per essere segni di quel Regno che ci è stato annunciato. Speriamo che questo film – di per sé un piccolo miracolo, reso possibile da tanto lavoro volontario, e grazie al sostegno di benefattori e delle case di produzione e distribuzione indipendenti – renda visibile quel cammino, possibile a ciascuno, verso la scoperta della tenerezza, immagine di quella del Padre. Quella tenerezza che lungi dall’essere una tirannia, ama profondamente la libertà dell’altro; la ricerca e la sostiene in quell’incontro umano e vero, invocato all’inizio del film, che, a partire dalle più profonde ferite visibili in alcuni tra noi, porta allo scoperto le ferite interiori di ognuno. Incontro che rende finalmente liberi, oltre i muri imposti dalla società, dagli stati, dalle religioni, e dai nostri stessi fragili cuori.
Jean Vanier.
Le sacrament de la tandresse
2018, Francia, 93 min.
di Frederique Bedos.
Produzione: Le Project Imagine – The Humble Heroes.