Nel 1997 Grete festeggia ottant’anni e una vita in apparenza felice e ricca di affetti. Qualcosa però le impedisce di gioire davvero: è il ricordo del suo biondo e amatissimo figlio, sottrattole con l’inganno perché diverso, anche grazie alla fattiva collaborazione del marito di allora, alto esponente dell’aristocrazia hitleriana. È splendido Il piccolo Adolph non aveva le ciglia (Rizzoli 1998; Einaudi 2007) della scrittrice tedesca naturalizzata italiana Helga Schneider, che ripercorre la lunga e travagliata vita di Grete. L’infanzia felice come figlia di un bottegaio, il lavoro di impiegata alla Gestapo, il matrimonio con Gregor che le permette il salto sociale, la gioia della gravidanza, la sensazione – poi diventata certezza – che suo figlio abbia qualche seria difficoltà. Quindi, l’incubo: la separazione forzata, e poi la disperata ricerca. Grete non vuole arrendersi: l’inflessibile coniuge la farà ricoverare in una fantomatica clinica psichiatrica, che in realtà – scoprirà la donna ben presto – è uno dei tanti luoghi apprestati per l’eliminazione “dei pesi morti della nazione”, secondo Gregor “una disposizione estremamente progressista che in futuro sarà imitata da molti altri Paesi”. In appendice al romanzo – nato da un’intervista raccolta dall’autrice in Germania nell’autunno del 1966 – Schneider scrive che “anziché proteggere i più deboli, il governo di Hitler perpetuò il loro sistematico sterminio. Al contrario la Germania nazista promulgò una severa legge, contro la vivisezione e l’uccisione delle specie animali protette”. E l’ultimo bambino vittima del programma di eutanasia nazista “venne ucciso il 29 maggio del 1945”, malgrado le truppe americane fossero ormai nelle immediate vicinanze.
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