Ripetete con me: «Adelia Antartico Imperatore e Papua, Adelia Antartico Imperatore e Papua». Fatto? Bene, siete entrati nel magico mondo di Atypical. Dove conoscerete Sam, il protagonista della serie di Netflix che racconta la vita di un ragazzo che si trova “on the spectrum”, cioè nello spettro dell’autismo.
Sam è quello che noi definiremmo un “autistico ad alto funzionamento”. Sa fare delle cose (ad esempio memorizzare elenchi o numeri) molto meglio della media degli uomini ma è completamente inadatto a gestire altre situazioni di stress soprattutto emotivo.
Quando Sam era molto piccolo, la mamma gli insegnò a recitare una specie di “litania di rilassamento” e lui, a un certo punto della serie tv, racconta: «ogni volta che sono stressato, recito l’elenco delle quattro specie di pinguino antartico: Adelia Antartico Imperatore e Papua. Questo mi aiuta. Dovreste provarlo la prossima volta che vi sembra di morire. A meno che non stiate morendo davvero. In questo caso, non vi aiuterebbe per niente».
Come avrete capito, Sam è molto simpatico. Vorrei avere lo spazio per descrivervi meglio che tipo è, così anche se non aveste Netflix potreste farvi un’idea. Ma il motivo per cui parliamo di Sam non è fare pubblicità alla serie, che davvero non ne ha bisogno, ma cercare di individuare qualche elemento per riflettere su come le persone con disabilità vengono rappresentate dai media.
Molti anni fa – venti, ormai! – Ombre e Luci pubblicò il resoconto di uno studio dell’Istituto di ricerche economiche e sociali del Friuli-Venezia Giulia, svolto in collaborazione con quattro cooperative sociali sparse in tutta Italia. Tv e giornali venivano fortemente criticati per come rappresentavano le persone con handicap. La critica era principalmente quella di non riuscire a raccontare il “disabile di tutti i giorni”, privilegiando invece due modelli contrapposti.
Da un lato, il “malato”, cioè l’individuo che porta con sé un carico di sofferenze indicibili, oltre le quali non c’è spazio per nulla: né relazioni sociali né crescita personale né conquista di autonomia, niente, un deserto di angosce, dentro il quale possono entrare solo guaritori o consolatori. Dall’altro lato, il “supereroe”, chi riesce con una forza di volontà fuori dal comune a imporsi in un campo particolare: lo sport, la politica, lo spettacolo.
Questa era la situazione vent’anni fa. È cambiata di molto? Domanda complessa. Proviamo a rispondere con qualche suggestione breve e sparsa.
Grazie al cielo, mi sembra che sia stato quasi cancellato dal dibattito l’argomento della “spettacolarizzazione del dolore”. Vi ricordate quando comparivano al cinema o negli spot pubblicitari persone disabili? Qualcuno subito alzava il ditino per dire «eh no, così non va! Si strumentalizza il dolore per fare audience o vendere di più.» C’era dietro l’idea che quella persona fosse lì in quanto “malata” e non in quanto “persona”. E che non fosse in grado di valutare da sola se qualcuno lo stesse strumentalizzando oppure no.
Credo che qualche passo avanti si sia fatto anche sulla questione della rappresentazione del “disabile di tutti i giorni”. E in qualche caso è accaduto proprio sfruttando in maniera positiva i modelli precedenti. Intendo dire che quando Bebe Vio si fa intervistare in camera sua e racconta delle difficoltà e dei successi di un’atleta paralimpica, svolge un racconto che parte sì dal modello del “supereroe” ma passa per mille aneddoti di vita quotidiana che un tempo sarebbero stati ritenuti irrilevanti o addirittura scabrosi.
E poi c’è Atypical. Un’intera serie tv di un gigante dell’intrattenimento dedicata ad un adolescente autistico, alla sua famiglia, il lavoro, la scuola, l’amore, gli amici! Wow, dovremmo dire. E facciamo bene a dirlo perché Sam è inserito in un tessuto sociale molto ricco, non è un corpo estraneo, un “altro da me”, come nei vecchi modelli del “malato” e del “supereroe”. Con un’avvertenza, però: che quel tessuto sociale fatto di amici comprensivi, psicologi bravi, un lavoro part-time e gruppi di sostegno a scuola esiste in tv, ma non nella nostra realtà. Questo non vanifica però il discorso fatto fin qui sulla rappresentazione del disabile. Semmai indica un orizzonte.
La vita dei nostri ragazzi non sarà mai esattamente come quella ma forse se qualcuno per strada vedrà un tipo ripetere i nomi dei pinguini, invece di ridergli dietro dirà: “guarda, c’è Sam”.
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