Trovandosi quotidianamente innanzi a delitti terribili commessi da giovani perlopiù legati a famiglie della ‘Ndrangheta, che spesso non avevano altra scelta che seguire le regole imposte dal codice di comportamento malavitoso, Di Bella ha capito che allontanare, prima che commettessero azioni irreparabili, i giovani problematici dalle famiglie a rischio poteva essere una soluzione efficace. Perché in grado di offrire quell’alternativa alla violenza e al crimine che da soli, forse, quei giovani non avrebbero mai cercato.
È proprio per seguire da vicino la vita di alcuni dei ragazzi aiutati dal giudice Di Bella che la giovane regista Sophia Luvarà – calabrese di nascita ma emigrata all’estero da molti anni – ha deciso di tornare nella sua terra. Separati dal proprio ambiente familiare, questi giovani sono affidati a una struttura in cui seguono un percorso pensato non solo per educarli alle regole della convivenza civile, ma anche per dare loro un’adeguata formazione culturale.
Non è stato facile per Sophia Luvarà riuscire a ottenere subito la complicità di ragazzi cresciuti in una realtà profondamente maschilista: ma la pazienza della regista ha dato buoni frutti. Dal documentario Parola d’onore (2020) risulta chiaramente il conflitto interiore che stanno vivendo tutti i ragazzi – al di là delle inevitabili goliardie da cameratismo e della naturalezza con cui raccontano azioni ben poco edificanti del loro passato. È un conflitto che li investe interamente, e non tutti avranno la forza di cambiare davvero pelle.
Di Bella ha sperimentato in prima persona che sbagliare un giudizio su una carcerazione o una scarcerazione può costare delle vite: per questo i suoi dialoghi con i ragazzi sono i momenti più importanti del film, sono l’arma più potente con cui Parola d’onore cerca di spiegare come il circolo della criminalità legata alle tradizioni familiari possa essere spezzato.
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