Da due anni e mezzo, lavoro in un centro diurno riabilitativo, a Torre Maura, Roma. Il centro è una struttura pubblica gestita dall’Asl insieme alla cooperativa che vince l’appalto e che si occupa di assumere gli operatori necessari allo svolgimento delle diverse attività. Il centro è aperto di giorno per persone che hanno difficoltà psichiche e i vari laboratori proposti al suo interno hanno lo scopo di aiutarli a inserirsi (o a reinserirsi) nella società e a svolgere una vita il più possibile autonoma e regolare.
Lo stravolgimento avvenuto nelle nostre vite in quest’ultimo mese ha insieme toccato e non toccato il centro. Quest’ultimo, infatti, poiché ha lo statuto di presidio medico deve restare aperto e il personale Asl e gli operatori devono garantirne l’accessibilità. Ma gli utenti che nel periodo precedente all’epidemia frequentavano il centro sono diminuiti considerevolmente e, in particolare per le attività di alcuni laboratori, le loro assenze sono continuative.
Stando così le cose, due sono le considerazioni principali.
La prima.
Che il centro non possa chiudere, per me ha senso. È infatti un luogo dotato di un peso specifico riconosciuto anche dalla società, che anche in condizioni eccezionali ne impone l’apertura. Ha ragione la società quando in un momento del genere, ovvero fuori da ogni genere, tiene in considerazione le conseguenze che potrebbero esserci per determinate “categorie” di persone. Lo penso sinceramente, e altrettanto sinceramente so di illudermi. La nostra società ci mette in relazione molto più con il concetto di chiusura e di confine. Dai confini territoriali, condominiali, burocratici fino alla nostra onnipresente chiusura mentale. Eppure io continuo ad andare al centro.
Commenti della prima ora. «Beata te che poi uscì», «Bbono che spezzi la giornata», «Daje, così continui a guadagnà».
Commenti della seconda ora. «Ma che davero?!», «Ma nun c’annà», «Prendi tutte le precauzioni del caso».
Io, intanto, mentre scandaglio con il mio collega i vari articoli di giornale, la comunicazione dei mass media e le reazioni delle persone – il tutto per carità con fare dialogico, razionale e pacato – arrivate le 11.30 misuro la temperatura, che a furia di parlare…
La seconda.
Ci ritroviamo, io e i miei colleghi, a doverci recare su un luogo di lavoro dove non c’è più alcun utente (esclusi due laboratori soltanto). Ergo mi ritrovo in uno stanzone vuoto e mi metto a sedere davanti a un pc accanto al mio collega, quello di cui sopra. Cerchiamo entrambi, con tutti i modi che ci vengono in mente, di mantenere un contatto con gli utenti. E il contatto avviene tramite telefonate, WhatsApp, Google Foto, WeSchool, email, il nostro sito web ecc… A volte con successo, altre volte va male, veniamo ignorati.
Ora il punto è questo: tutto quello che noi facciamo nello stanzone vuoto potremmo farlo ugualmente da casa, trattandosi appunto di telelavoro. Se il telelavoro però viene fatto dallo stanzone del centro è retribuito come da contratto, se avvenisse viceversa da casa, non sarebbe riconosciuto come lavoro e amen allo stipendio. Anche qui, commenti della prima e della seconda ora.
“Il buon senso è avulso dalla realtà”. Il circolo si vizia così: (1) Restate a casa più che potete, (2) a meno che non dobbiate lavorare per forza in presenza, (3) vi proponiamo allora il telelavoro visto che la presenza degli utenti non c’è più, (4) ma il vostro lavoro prevede il contatto con gli utenti e quindi (5) l’Asl non riconosce il telelavoro.
In tutto ciò emerge, e probabilmente non solo per me, una cosa tra le altre: più volte io ho amato il mio lavoro. Eppure è capitato anche a me che mia madre, fin da tempi non sospetti, mi dicesse: «tu annanz e a fatica aret» (tu stai avanti e la fatica ‘il lavoro’ ti corre dietro). Allora penso a loro – agli utenti suona male, allora penso ai pazzarelli – e immagino G. che sta sull’uscio della porta e attende la complicità del mio sguardo per essere accolta e abbracciata, immagino C. assonnato e con gli occhi cisposi che trascina le labbra per rivolgere un sorriso educato, immagino D. che anticipa sempre la mano per la stretta anche quando ha le sopracciglia aggrottate, immagino ancora G. in affanno per il ritardo e con un colore di capelli diverso che solo la gioventù ha l’ardire di fare, immagino D. silenzioso quasi a non voler disturbare neanche con il respiro e sempre così acuto però, immagino M. desideroso di manifestare la sua bontà con quanti più caffè e bottigliette d’acqua riesce a offrire, immagino un’altra M. che con la velocità e la confusione delle sue sinapsi mi ricorda quanto sono lenta. Immagino gli altri. Sono tanti, ma per dire quanto loro hanno cambiato una parte della mia vita ci vorrebbe un altro spazio che non è questo, che è già finito.
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