In questi giorni di quarantena ognuno di noi ha mille pensieri, mille immagini, mille informazioni che frullano in testa, si mixano creando un caleidoscopio di emozioni. Per lo più si pensa con nostalgia a ciò che si è perso, rischiando di non trovare il tempo di fermarsi a riflettere.
Eppure siamo in molti aver già vissuto quarantene forzate dagli eventi, dalla vita.
Nessun virus da sconfiggere, ma patologie con le quali fare i conti ogni giorno, ogni ora. Una persona con disabilità viene immersa in un mondo ovattato e chiuso, fatto dai camici bianchi di medici e infermieri e di termini sconosciuti più. Sono tante le persone con disabilità a cui non basta firmare un’autocertificazione per uscire, che non possono fare jogging o portare a spasso il cane, perché vivono in case a volte di edilizia residenziale pubblica, che non ha un ascensore a norma dove possa entrare una carrozzina, o vivono in un corpo immobile, o più semplicemente la società per paura della diversità si è dimenticata di loro, che si trovano a non aver nessuno per il quale valga lo sforzo di uscire di casa. Ci sono anche molti che a causa di ciò che i canoni sociali definisce diverso, vivono reclusi volontariamente nelle proprie abitazioni, per paura degli sguardi che nascondono il giudizio della gente, troppo gravosi da sostenere.
Oppure le persone ricoverate per cure lunghissime di cui non si vede la fine. Avevo 7 anni durante il mio primo ricovero lungo, la mia prima esperienza quarantena fuori dal mondo. Era il 1993 e non c’erano i social network. Trascorrevo le mie giornate nella mia stanza, con mia madre, andavo a scuola in una classe con due studenti: io che studiavo la suddivisione in sillabe e l’apostrofo e Marco, 14 anni, che studiava cose per me incomprensibili di matematica. Ogni tanto io e Marco giocavamo a calcio con una palla di gommapiuma in un corridoio desolato. Poi lo hanno operato prima di me e non ho avuto più neanche quel momento di svago.
Il silenzio può essere impossibile da sostenere, perché è il momento in cui le domande più profonde irrompono dal nostro inconscio. Mi sembra ancora di sentire l’eco prepotente: “perché è successo proprio a me?”. Beh in questo periodo credo sia una domanda frequente: perché?
Non esiste una risposta, esiste un’opportunità di confrontarsi con se stessi in una società che di solito fagocita il tempo, ora, questa domanda non è un problema condiviso.
Quel silenzio che irrompe in questi giorni può essere fonte d’ispirazione e riflessione. Non sprechiamolo.
E non dimentichiamo il lavoro dei medici. Quel contatto continuo con i camici bianchi che una persona con disabilità ha fin dall’inizio della sua avventura diversa fa comprendere da subito quanto sia indispensabile il lavoro dei medici e degli infermieri, dei fisioterapisti e di tutto il personale che ruota intorno alla vita di un ospedale. Il nostro grazie è riconoscenza pura, senza bisogno di campane di sensibilizzazione.
Ora che tutti siamo consapevoli del ruolo cruciale che svolgono i dottori, ma anche gli insegnanti, i fattorini che consegnano spesa e alimenti a domicilio, scolpiamolo in mente, e non dimentichiamolo più. Soprattutto tra poco. Quando si pagheranno le tasse che consentono di pagare quegli stipendi e quegli strumenti che salvano vite umane.
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