Alcuni mesi fa mi fu chiesto di scrivere qualcosa a proposito di come il cinema abbia affrontato la disabilità nel corso dei suoi cento e più anni di vita. Lo feci. L’ho riletto per preparare quest’altro articolo. Sembra essere passato davvero un secolo.
Scrivo nel giorno dei 919 decessi, il 27 marzo 2020. Una data che molti, purtroppo, ricorderanno bene. E mi rendo conto che quando, speriamo presto, sapendo che il tempo sarà quello necessario e non quello che ci auguriamo, tutto questo sarà finito, saremo diversi.
“Gli altri siamo noi”, iniziava così il mio articolo, che introduceva lo “Speciale Cinema e disabilità”. Intendevo tutt’altro, ma adesso è davvero così. Chi fino a due mesi fa si riteneva normale, uscirà da questa situazione cambiato, emotivamente e psicologicamente mutilato. Speriamo però anche più consapevole di quello che significhi essere confinati, isolati, ignorati spesso, evitati, non sempre degni di avere un contatto umano. Ci saranno tante storie da raccontare, e per quanto si possa vivere positivamente una situazione del genere, poche saranno fino in fondo liete.
Sarà interessante, allora, guardarsi indietro, scorrere immagini che abbiamo visto per tanto tempo con caritatevole benevolenza, pensando sempre di essere immuni a tutto, di non potersi ammalare, non potere avere incidenti, avendo la certezza che tutto sarebbe filato liscio.
Non è andata così. In tanti hanno detto che il Coronavirus è in qualche modo un equalizzatore sociale. Non è vero, sempre bisogna fare i conti con chi questa livella la può far pendere dalla sua parte grazie a pesanti conti in banca. Ma le ferite che porteremo dentro, quelle saranno difficili da curare, se non impossibili, e le ricchezze materiali non serviranno ad alleviarle. Ferite diverse comunque da quelle che ogni giorno tanti uomini e donne mostrano al mondo, più o meno visibili, ma sempre tangibili, senza combattere battaglie, vincere guerre, ma semplicemente vivendo, giorno dopo giorno.
Ecco, il linguaggio militaresco nei confronti della malattia, diventato per ragioni ignote quasi obbligatorio quando si affronta l’argomento, è un linguaggio di genere, cinematograficamente parlando. Eppure non sono film di guerra Risvegli, Il mio piede sinistro o The Elephant Man. Sono storie di uomini e donne che affrontano la vita che gli è stata data, con dignità e dedizione, come dovremmo tutti. E come tutti, possono essere più o meno simpatici, generosi, buoni o cattivi. In ogni caso, sono esseri umani.
Ecco, a questo dovremo pensare quando ricominceremo a uscire di casa, e ci sentiremo finalmente liberi. Dovremo pensare che molte persone non si saranno forse neanche accorte di quello che è successo. E altre invece saranno felici, ma anche un po’ tristi, di vedere finalmente i loro cari riprendere la normale routine quotidiana. Perché questa tragica anormalità tanti finalmente hanno avuto la possibilità di condividerla, con quei cari che hanno potuto dare amore a chi da un letto, da una sedia a rotelle, non può fuggire mai. Darlo, e anche riceverlo.
Il cinema del futuro parlerà di questo pezzo di Storia. E lo farà raccontando tra quattro mura di amori che sbocciano o che appassiscono, di commedie degli equivoci sui social o di inevitabili drammi esistenziali, thriller e horror sulle psicopatologie dell’isolamento. Tutte opere che manderanno lo stesso messaggio: niente sarà più che prima. Noi non saremo più come prima.
Già, ma noi chi? Perché per tanti altri, invece, niente sarà cambiato e nessuno se lo ricorderà.
Me ne accorgo persino io, solo rileggendo quanto scritto pochi mesi fa non riesco a riconoscermi in quelle righe, e forse ancora neanche in queste.
Dobbiamo quindi entrare nell’ordine di idee che esiste un prima e un dopo, anche per il racconto della disabilità sul grande schermo. Storie molto più vicine a quella di Dafne, uno dei migliori film italiani della scorsa stagione e degli ultimi anni, eccezionale nel raccontare l’importanza dello scambio, emotivo, esperienziale, per comprendersi a vicenda, per capire che le avversità si possono, anzi, si devono superare insieme. Ma non è un sentimento questo che nasce spontaneo. Deve essere semplificato, veicolato e innestato. A questo servono le storie. E dovranno essere indelebili, come le immagini che le accompagneranno.
Come quelle che mi passano davanti agli occhi mentre scrivo, del Santo Padre solo in una Piazza San Pietro deserta. Un’istantanea di dirompente potenza, cinema allo stato puro che racconta la disabilità di un intero pianeta e un uomo, indipendentemente da quello che rappresenta, che compie la missione che gli è stata affidata. Poteva essere un infermiere, un portantino, uno dei tanti ragazzi che approvvigionano le case dei reclusi. Un giorno si racconteranno anche le loro di storie.
Allora, troviamo anche una narrazione diversa per chi fino a oggi si è visto ritrarre troppo spesso come un pezzo altro di società, soprattutto perché pochi trovavano il tempo e il giusto modo per comunicare con loro. Adesso tutti abbiamo avuto il tempo, il modo viene da sé. Il cinema del giorno dopo dovrà tramandare il come. Sarà importantissimo, ma non per casi eccezionali e condizioni estreme. Ma ogni giorno. Nella vita vera. Normale. Per tutti.
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