Carla vive a Taranto, ha un marito e due figli, un lavoro, una vita normale. Nel 2010 tutto cambia con la prima avvisaglia della malattia, la Sla. La donna perde quasi subito la parola, è un puntatore oculare a leggere i movimenti delle pupille per consentirle di comunicare tramite un sintetizzatore vocale. Attaccata al respiratore automatico, nel giro di sei anni Carla perde anche l’uso delle gambe, delle braccia, dei muscoli del collo, il riflesso della deglutizione, i muscoli della bocca, il gusto. Eppure continua a somigliare a una farfalla che, dentro a uno scafandro, non sa cosa voglia dire rassegnazione. La morte le fa orrore. E a lasciarsi andare non ci pensa proprio, nonostante le istituzioni, che le garantiscono soltanto un’ora e mezza d’assistenza al giorno, l’abbiano abbandonata. Ad abbandonarla non sono stati, invece, famiglia e amici. Il figlio Andrea ha lasciato l’università per dare una mano in casa – non ci sono i soldi per permettersi badanti a turno, operatrici sanitarie dedicate e infermieri specializzati – e il marito Biagio, tra le tante cose che fa per accudire Carla, punta anche, ogni notte, quattro sveglie a distanza di poco più di sessanta minuti l’una dall’altra, per controllare che vada tutto bene, che lei non soffochi.
Matteo ha 16 anni nel 2001. Una sera d’agosto, nel trevigiano, guida il suo motorino: un platano si ripiega su se stesso, solleva le radici da terra, si appoggia sui fili della corrente e gli si schianta addosso, colpendolo. L’impatto gli provoca la lesione delle due vertebre cervicali centrali e anche del midollo. La diagnosi non lascia sperare: tetraplegia. È così che si apre il secondo tempo della vita di Matteo, verso il quale il destino sarà ancora una volta beffardo. Il ragazzo non potrà realizzare, infatti, il sogno di costruire una casa domotica per mezzo del risarcimento ottenuto dopo l’incidente: a causa del crack della banca, a cui si era affidato senza mai acconsentire a investimenti rischiosi, perde tutto il suo denaro. Cresciuto, Matteo scrive una lettera alle autorità politiche, a chi, in campagna elettorale, aveva promesso ai risparmiatori il rimborso totale di quanto perso per la malafede di certi dirigenti e per la mancata vigilanza sulla banca: «Ho vissuto questi 17 anni in due stanze della casa, perché per me erano accessibili solo cucina e salotto. Noi siamo passati da progettare un minimo di futuro a non sapere come arrivare a fine mese (…). Con i nostri risparmi sono stati rubati i nostri progetti per un minimo di serenità».
Queste sono due delle dieci storie contenute ne La più bella. La Costituzione tradita. Gli italiani che resistono (Torino, Add Editore, 2020, pagine 288, euro 15) del giornalista e inviato di Piazzapulita Alessio Lasta. Un libro inchiesta capace di testimoniare, attraverso il racconto di vicende realmente accadute da nord a sud Italia – che spaziano dai diritti negati di chi attende l’assegnazione di una casa popolare alla mancanza di tutele dei lavoratori fino all’assenza di principi d’accoglienza verso le persone straniere e ancora su tanto altro –, quanto e come la nostra Carta resti spesso «lettera morta per le vite di molti, troppi italiani». Nel caso di Carla e Matteo a venire violati e disattesi sono rispettivamente gli articoli 32 e 47 del dettato costituzionale. Il primo sancisce la tutela della salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti»; il secondo riguarda, invece, la «tutela del risparmio in tutte le sue forme».
Sul fronte della disabilità c’è, dunque, tantissimo da fare per non calpestare dignità, desideri e sogni – è questo ciò che emerge leggendo le pagine del volume al tema dedicate. Pagine che compongono un intenso reportage sulle vite di uomini e donne che tuttavia non mollano; e tramite cui l’autore squarcia, per l’appunto, i silenzi sulle situazioni vissute dalle famiglie con malati gravi e gravissimi, alle prese con burocrazia, mancanza di denaro, assegni di cura ridotti all’osso e che se arrivano sono in ritardo, sacrifici e umiliazioni. «Oggi siamo un pallido riverbero di quel Paese che i padri avevano disegnato per noi», scrive Lasta con amara disillusione.
Così al lettore viene da chiedersi se tutto ciò sia normale. È normale che Carla e Matteo, al pari di tantissimi altri in analoghe condizioni, si rimbocchino le mani da soli perché non aiutati da nessuno, non vedendo riconosciuti tutele e diritti? Si potrebbe andare fieri di quanto fanno eroicamente per loro stessi, però risulta oltremodo avvilente constatare che il Paese «ha messo nero su bianco che (…) i malati (…) non devono essere lasciati soli, salvo poi tradire un principio di dignità altissimo, inchiodandoli al silenzio delle loro case, alla prigione dei loro corpi, all’anonimato delle loro vite». Fino a quando quest’umanità fragile e presa in giro da innumerevoli storture, dovrà camminare su strade solitarie? Lasta, dando voce a certe storie, illuminando il loro buio, snocciolando dati e numeri precisi, se lo chiede («Perché permettiamo che un essere umano viva con questa sofferenza e debba sopperire, con sforzi disumani, a quello che i padri costituenti avevano messo nero su bianco come diritti riconosciuti?»). E poi, con «la penna del cronista e lo sguardo dell’uomo», lancia un importantissimo monito. Potrebbe essere sintetizzato con la celebre battuta di un film: «Da soli si può andare in giro. In due si va sempre da qualche parte». È ora di aprire gli occhi, fare un passo concreto e in avanti: la Costituzione ha settant’anni.
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