«L’oratorio della mia parrocchia era un po’ in difficoltà nella Milano dei primi anni Settanta, e così il prete di noi ragazzi “si inventò” gli scout: mi ci buttai a capofitto». Chi parla è don Marco Bove, vera roccia per Fede e Luce: assistente spirituale nazionale dal 1999, da settembre 2019 è l’assistente spirituale internazionale del movimento. Il vero merito di don Marco, però, è quello di aver fatto proprio lo spirito di una comunità costruita sull’amicizia.
Come era Marco bambino?
Frequentavo gli scout, avevo 15 anni, e un bel giorno ci vengono a dire che c’è una famiglia che ha bisogno di volontari per fare ginnastica a una bimba con disabilità. In quattro demmo la disponibilità: il mio primo incontro con la disabilità nacque attraverso il programma di stimolazione del dottor Doman! Conobbi così Lucrezia, che per tutti era chiamata col diminutivo Teta, e frequentai per anni la sua casa. Arrivato all’università, la mamma mi chiese se volessi fare l’insegnante di sostegno per la figlia (allora la legge richiedeva come condizione per esserlo la sola iscrizione all’università). Rifiutai, ma l’anno dopo tornò alla carica e io cedetti: in quell’anno non studiai molto, ma iniziai a riflettere sulla mia vita… La bimba iniziò la quarta elementare, io continuai a frequentare la famiglia, ma passai a insegnare religione in un’altra scuola: fu l’anno in cui presi contatto con il seminario. Interruppi l’università e partii. Il bello fu che la sera in cui finii di dare gli esami del primo anno, mentre già pregustavo il ritorno a casa, mi chiamò il rettore: l’indomani ci sarebbe stata una festa e serviva aiuto. Avrei voluto rispondere no, invece mi ritrovai a preparare una festa di Fede e Luce. Era giugno 1983: una folgorazione.
Folgorato davanti a un canto di chitarra!
(Ride). Alla festa c’erano altri tre del seminario, mi spiegarono che era il loro impegno per il secondo anno: di solito si viene mandati la domenica nelle parrocchie ma a loro il rettore aveva chiesto di seguire Fede e Luce. Mi piacque e mi proposi: a settembre iniziai. Dopo il secondo anno di teologia cambiai seminario: sapevo che il mio impegno non sarebbe più stato quello di Fede e Luce ma feci di tutto per non perderlo. La provvidenza ha poi voluto che quando fui ordinato sacerdote (era il 1987), venni assegnato alla parrocchia di Rho dove era appena nata una comunità! Dopo quasi 9 anni lì, Martini mi chiese di seguire la formazione dei giovani preti.
Ci avviciniamo alla nomina ad assistente nazionale…
Nel 1996 mi venne chiesto per la prima volta, ma il cardinale non diede l’autorizzazione: cambierà idea solo tre anni dopo. La formazione dei giovani preti – mi spiegò – restava la mia priorità ma potevo accettare (Martini del resto era il vescovo referente per l’Italia di Fede e Luce!). Sono stato assistente spirituale nazionale fino alla nascita delle province, poi assistente per il nord. L’ultimo passaggio è stata la nascita di Fede e Luce Onlus, associazione presso la Cei: quindi è la Cei che cinque anni fa mi ha nominato assistente ecclesiastico.
Ha una carriera da guinness in Fede e Luce: merito della sua bravura o del fatto che è difficile trovare sacerdoti che vogliano farvi parte?
Il vero problema è che quando il sacerdote incontra una comunità di FL si sente ingaggiato, ma nel momento in cui viene trasferito, perde il contatto: se dietro non c’è una sensibilità di ordine personale, ecco che finito il servizio, finisce il suo legame con il movimento. Purtroppo anche la formazione in seminario su questi temi è molto scarsa. Così nascono grandi problemi quando, ad esempio, il sacerdote incontra un genitore che chiede l’accesso ai sacramenti per il figlio, ricevendo un rifiuto. Quante volte mi sono arrabbiato: il prete mi dice «ma il ragazzo non capisce». «Perché – ribatto io – tu hai capito il mistero di Dio?». La verità è che per molti sacerdoti la disabilità è un tema difficile da maneggiare, alcuni si sentono addirittura spaventati, i più tengono le distanze perché non hanno le coordinate. Ringrazio il cielo per aver fatto quest’esperienza, l’ho nel Dna. Se ho detto sì al ruolo di presidente della Sacra Famiglia (istituto che si occupa anche di persone con disabilità) è perché avevo alle spalle l’esperienza di Fede e Luce.
Cosa ci rende esseri umani? La Chiesa, come la società, sembra così schiacciata sull’intelligenza…
Rischiamo ancora di cadere in una visione teologico-intellettualistica. Stiamo facendo passi avanti sulla catechesi, ma abbiamo ancora l’immagine della preparazione come apprendimento di tipo scolastico. Una mentalità che non opera solo in tema di disabilità, ma anche rispetto ai ragazzini provenienti da situazioni problematiche, che invece chiedono solo di essere ascoltati. Peggio ancora, forse dietro c’è l’idea di una Chiesa che deve difendere i sacramenti. Perché ne abbiamo una visione decisamente sbagliata: li vediamo come un premio per i buoni e non invece come un aiuto per chi è fragile. L’eucarestia, ad esempio, non è il trofeo per il bravo, ma è il pane del cammino per chi si sente in difficoltà. Ma sono discorsi in controtendenza…
I colleghi sacerdoti come si pongono davanti al suo percorso così intrecciato con la disabilità?
C’è curiosità, ma i più la vedono come la mia specializzazione: c’è il prete esperto in storia dell’arte, quello in diritto e ci sono io che sono identificato con Fede e Luce. Ovviamente sono contento di essere associato al movimento, però non mi piace il messaggio sottostante, quello cioè della disabilità come una realtà per specialisti, mentre dovrebbe essere patrimonio condiviso.
Da fine anni Novanta Fede e Luce è cambiata tanto: che consiglio le darebbe oggi?
La fede è sempre meno sentita al punto che qualcuno diceva che forse dovremmo cambiare nome. Ma vi è una differenza fondamentale tra chi si avvicina nell’ottica del volontariato, come esperienza estemporanea senza mettersi in gioco, e chi invece sceglie di costruire una relazione: bisognerebbe avere la capacità e il coraggio di fare davvero quest’esperienza. Perché condividere concretamente la propria vita è l’arma vincente. Che parla più di tante brochure.
Che direbbe oggi al Marco quindicenne che entrava per la prima volta da Lucrezia? E il Marco ragazzino cosa direbbe al don Marco arrivato fin qui?
Al Marco di allora direi non di avere paura perché l’esperienza che sta per iniziare gli farà vedere la vita sotto un’altra luce. E credo che quel piccolo Marco oggi mi direbbe: don, stai attento a non perdere di vista Lucrezia! Fai quello che devi fare, ma non perdere la relazione con lei!
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 147, 2019
SOMMARIO
Editoriale
Chi cura le anime? di Cristina Tersigni
Focus: Spiritualità e disabilità
La Chiesa ci accoglie davvero? di Giulia Galeotti
Uno dei tanti di Roberto Brandinelli
Ma stai pensando a me? di Sergio Sciascia
Una dedica che andrebbe cambiata di Gianni Marmorini
Per una teologia meno disabilitante di Luca Badetti
Intervista
Lucrezia e il Marco di ieri e di oggi di Giulia Galeotti
Testimonianze
L'alfabeto che manca di Serena Sillitto
Dall'archivio
Cosa dirvi di più? di Stéphane Desmandez
Associazioni
Catalogo di prelibatezze di Enrica Riera
Fede e Luce
A metà tra un conclave e una seduta di autocoscienza di Serena Sillitto
Spettacoli
Il cantiere delle buone notizie di Alessandra Moraca
Rubriche
Dialogo Aperto n. 147
Vita Fede e Luce n. 147
Libri
La tua vita e la mia di Majgull Axelsson
Questa è bella! La storia di Rospella di Anna Sarfatti
Per tutti persone di Azione Cattolica Ragazzi
Amore caro di Clara Sereni
Diari
Sempre di Benedetta Mattei
Ogni tanto dobbiamo svagarci di Giovanni Grossi