Tutto potevo aspettarmi quando Giulia mi propose di accompagnarla a Trosly da Jean Vanier (allora ero anche uno dei due coordinatori della comunità di Fede e Luce di San Roberto a Roma, figuratevi che emozione!) ma mai al mondo avrei immaginato che quell’uomo, di cui avevo sentito così tanto parlare e di cui avevo letto qualche libro, potesse farci niente meno che da autista! In macchina, mentre andavamo alla messa di una comunità di un paesino vicino, Giulia stava seduta davanti accanto a Jean che guidava, mentre io da dietro gustavo la scena di un santo al volante che parlava di “people with disabilities”, Dio e comunità con la mia migliore amica.
Spesso i santi ce li immaginiamo avvolti da un’aura mistica che quasi li stacca da terra: non è così. La santità impasta cielo e terra per fare «nuove tutte le cose» anche le più banali, le più ordinarie, quei gesti che compiamo mille volte al giorno ma che nelle mani di un santo come Jean acquistano un sapore diverso, il profumo di Dio.
«È importante non fare cose straordinarie ma cose molto ordinarie con un amore straordinario» diceva: non è uno slogan pubblicitario, questo è ciò che ho visto con i miei occhi fare a Jean Vanier in quei giorni di ferie di fine gennaio del 2012 trascorsi a Trosly–Breuil per e con Giulia. Mentre guardavamo e ascoltavamo quello che ci girava intorno in quel paesino nel nord della Francia, vedevamo i ragazzi della nostra comunità e le speranze delle loro mamme, pensavamo alla nostra realtà e a quello che c’era e c’è ancora da fare.
Al centro di tutto, l’amore, quello vero, quello di Dio per l’essere umano, quell’amore che è fatto di potenza e tenerezza insieme, che si concretizzava, davanti ai nostri occhi, nel più bel “come” possibile! Quello che avevamo letto nei libri di Jean e che gli avevamo sentito dire agli incontri, lì lo abbiamo toccato con mano, come Tommaso quando mette il dito nel costato di Gesù e lì trova la sorgente del suo essere che prorompe nella più bella professione di fede: «Mio signore, mio Dio».
Quando Jean scrive e ripete che ogni persona è importante, che ognuno di noi è un dono, tutti, nessuno escluso, anche quelli che il “mondo” mette ai margini della società, perché persone con disabilità (e attenzione: Jean non parla mai di “disabili” perché la disabilità non identifica la persona ma sempre e solo di persone con disabilità, persone appunto!), quando sostiene che a ciascuno va rivelato il suo essere unico e prezioso agli occhi di Dio, il suo essere figlio amato, ecco tutto questo noi l’abbiamo visto a Trosly.
L’abbiamo visto nei laboratori dove i ragazzi lavorano la ceramica o cucinano le marmellate, ognuno per quello che può e per come può, così come nei campi dove coltivano frutta e ortaggi perché il lavoro, all’Arca, restituisce all’uomo la dignità che agli occhi del mondo il suo essere disabile gli toglie.
L’abbiamo visto a tavola, dove ognuno ha il suo compito tra apparecchio, sparecchio e lavaggio dei piatti, e il suo posto; nelle stanze dei ragazzi, tutte personalizzate e mai anonime perché l’Arca non è un istituto ma una casa famiglia dove ogni persona è accolta e amata per quello che è e rispettata nei suoi bisogni e nei suoi gusti.
L’abbiamo sentito nel foyer, dove anche le persone con le disabilità più gravi hanno la giornata scandita tra un tempo in cui stare fuori e un tempo in cui stare dentro casa, perché nessuno all’Arca è parcheggiato, nemmeno noi “forestiere” in visita, come se fosse la cosa più naturale del mondo aggiungere un posto a tavola, sedere accanto a sconosciute, parlare lingue diverse (e vi assicuro che la lingua non è un problema a Trosly: io che parlo poco e male l’inglese mi sentivo perfettamente in sintonia con tutto quello che mi circondava perché le parole parlate non sono tutto!).
E, principio e fine di ogni cosa, quel motore che ha acceso la vita di Jean l’abbiamo assaporato nella solenne pienezza della messa quotidiana, cuore pulsante delle giornate a Trosly, celebrata in una chiesetta ricavata da una stalla (ricorda qualcosa?), decorata con una piccola vetrata regalata a Jean dalla comunità di Taizè.
Nicla Bettazzi, la mamma di Massimiliano, ha scritto una volta che «Fede e Luce non è fare per ma stare con»: ecco, io non saprei descrivere con parole migliori il “come” di Jean. Lui stava. Stava con i ragazzi quando, alto com’era, li abbiamo visti a Trosly arrampicarglisi addosso. Stava con Dio quando ascoltando la messa l’abbiamo visto assorto e raccolto e trasfigurato, come se ricaricasse le batterie del suo spirito per portarsela dietro quella Parola in ogni singola ora delle sue giornate, in comunità come nei grandi eventi internazionali, per continuare a fare le cose ordinarie, come lavare i piatti, guidare, prendere il tè e chiacchierare, in un modo del tutto straordinario. Il Suo.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 146, 2019
SOMMARIO
Editoriale
Uomo del Regno di Giulia Galeotti
Focus: Jean Vanier
Jean e il carro di Geneviève di Giulia Galeotti
Il coraggio di cambiare di Giulia Galeotti
Levatrice di cose nuove di Cristina Tersigni
Ci ha fatto vedere ciò che non avevamo ancora visto di Andrea Lonardo
Il tesoro nascosto nel campo di Cristina Tersigni
L’autista più illustre di Serena Sillitto
Il tuo ultimo soffio di Angela Grassi
Dall'archivio
Ritrovare la nostra umanità di Jean Vanier
Spettacoli
La tenerezza di Jean in un film di Anne Dagallier
Libri di Jean Vanier
Le grandi domande della vita
Ho incontrato Gesù, mi ha detto: "ti voglio bene"
La comunità, luogo del perdono e della festa
Larmes de silence
Diari
«Daje Benedetta», «Daje tu, bello!» di Benedetta Mattei
Come avrei voluto vederti più spesso di Giovanni Grossi