Era un sabato pomeriggio di molti anni fa, il 2005 per la precisione. Tutta Fede e Luce era confluita ad Assisi per ricordare l’anniversario della nascita italiana del movimento. Era, se non ricordo male, un palazzetto dello sport, o comunque un grandissimo impianto sportivo capace di ospitarci tutti. Balli, canti, spettacoli, parole… Secondo alcuni, troppe parole. Troppi discorsi. Troppe testimonianze per un pubblico non capace di tenere a lungo l’attenzione. Non mi trovai allora d’accordo con queste critiche perché quel che successe ebbe, a mio avviso, dell’incredibile.
Io ero con Flaminia, Minni per gli amici, due immensi occhioni chiari e una voglia irrefrenabile di camminare. Quindi, come da copione, quel week-end umbro lo passammo in marcia. Camminavamo, ben sincronizzate in corpo e spirito, anche in quel pomeriggio di sole e di parole. Non ricordo chi introdusse l’anziana oratrice, né ricordo come venne presentata (Minni conosce mezza Fede e Luce, in tanti si avvicinavano per salutarla, baciarla e abbracciarla…), fatto sta che da principio non la ascoltai affatto. E, con me, l’immensa platea.
L’oratrice, però, non parve scomporsi. Fu questo, ricordo, che attirò per prima cosa la mia attenzione. Nonostante il rumore, amplificato dall’eco, proseguiva il suo racconto con voce ferma e calda, appassionata ma serena.
Liliana, nata in una famiglia ebrea non praticante, ha 13 anni quando viene portata a forza sul binario 21 della stazione centrale di Milano, divenendo improvvisamente “vecchia, sola, triste e disperata”. Sono 605 i deportati sul convoglio che quella notte parte per la Germania, destinazione Auschwitz-Birkenau. 585 di loro evaporeranno nei lunghi camini, compreso Alberto, l’uomo che stringe la mano della bambina. Suo padre.
“Di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, nello stesso giorno in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda assieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono niente di quello che sta succedendo. Non c’è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude”. Tra le altre cose, “era questo sprezzo a essere intollerabile, questo ridere di noi, questo punire ogni minima disobbedienza facendoci stare inginocchiate nude per delle ore. La nudità è stata una costante e io l’ho vissuta come una grande persecuzione morale, aggiunta a una situazione già di per sé terribile”.
Sopravvissuta a diverse selezioni, nel gennaio 1945 Liliana fa parte di quel corteo di fantasmi che i nazisti hanno fatto camminare di notte di lager in lager (la marcia della morte) nel tentativo di nasconderli agli occhi del mondo. Sebbene malata e ridotta a 32 chili, la ragazzina sopravvive anche a questa prova: liberata nel circondario di Ravensbrück il 1° maggio, quattro mesi dopo torna a Milano. Ma nulla sarà facile nemmeno qui: durissima è la convalescenza del corpo e dell’anima, convalescenza senza la quale non si è in grado di affrontare l’enormità di un letto comodo, di una tavola apparecchiata, di un bagno caldo, degli sguardi umani che, pur non capendoti più, si posano su di te.
Lentamente, mentre Liliana Segre proseguiva nel suo racconto in quel sabato del 2005, il vociare di Fede e Luce diminuiva. Ci ritrovammo presi per mano da questa incredibile ragazzina.
Quel che raccontava era duro, anche alle orecchie di persone che conoscevano la salita del quotidiano. Ma era una durezza mai retorica, capace di cogliere segni di speranza e bagliori di vita anche nei luoghi più disperati, là dove la morte si fa più assurda e selvaggia. Ma da dove viene – mi chiedevo – questa tangibile fiducia nella vita e nella capacità di resistenza di fronte al male? Liliana era sopravvissuta, ma – mi ripetevo – ci doveva essere dell’altro.
Alla fine giunse la spiegazione.
Perché effettivamente c’è stato un momento in cui Liliana ragazzina scelse di non essere a sua volta una bestia, ma una persona umana. È il momento in cui decise di dare un senso a quel numero 75.190 che le era stato tatuato, e che ormai è parte di lei.
“Il comandante dell’ultimo campo, crudele assassino, camminava vicino a me. Quindi si spogliò, rimase in mutande, si rivestì da civile. Tornava a casa dai suoi bambini e da sua moglie. Certamente non si accorgeva della mia presenza perché io ero ancora uno Stück, un pezzo. Quando buttò la pistola ai miei piedi, con tutto l’odio che avevo dentro di me e la violenza subita che mi invadeva il corpo, io pensai per un istante: ‘Adesso mi chino, prendo la pistola e, in questa confusione assoluta, lo ammazzo’. Mi ero nutrita a lungo solo di malvagità e di vendetta. Pensai che sparargli fosse l’azione giusta, nel momento giusto; il giusto finale di quella storia di cui ero stata protagonista e testimone. Ma fu un attimo. Un attimo importantissimo, definitivo nella mia vita, che mi fece capire che nella debolezza estrema che mi vinceva, la mia etica e l’amore che avevo ricevuto da bambina mi impedivano di diventare uguale a quell’uomo. Non avrei mai potuto raccogliere la pistola e sparare al comandante di Malchow. Io avevo sempre scelto la vita. Quando si fa questa scelta non si può togliere la vita a nessuno, e da allora fui libera”.
Nel tempo ho riascoltato diverse volte Liliana Segre parlare. Ho letto le sue parole, seguito le sue attività. Ma la forza costruttiva di quell’incontro tra la ragazzina sola dinnanzi al male e le comunità italiane di Fede e Luce è rimasta la perla più luminosa di tutte.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.141, 2018