Dopo aver superato il periodo di tirocinio, Giulia Rondini, una giovane di Mantova, è stata assunta come cameriera a tempo indeterminato in un fast food della città. Una splendida storia di lavoro e di autonomia, che lascia ben sperare per la reale inclusione delle persone con Sindrome di Down in un paese come l’Italia che fatica a trovare l’applicazione concreta di tanta buona teoria. Il diavolo, però, ci mette sempre lo zampino e così il futuro di Giulia ha rischiato di infrangersi davanti alla logistica: l’autobus che la ragazza avrebbe dovuto prendere per raggiungere il posto di lavoro, infatti, finiva la sua corsa poco prima del fast food. Venuta a conoscenza del problema, l’Apam – l’azienda dei trasporti locale – ha deciso di allungare di poco il percorso, una deviazione che permette ora a Giulia di attraversare la statale senza correre rischi per andare a indossare la divisa.
Poco dopo, abbiamo saputo che la Sindrome di Down è finita addirittura sulla copertina di Vogue: un’autentica rivoluzione copernicana! Sull’ultimo numero dell’edizione olandese della celebre rivista, infatti, campeggia una bellissima coppia, fatta da una mamma e il suo bimbo, entrambi con enormi occhi blu. La mamma si chiama Amanda Booth, ed è una nota modella statunitense di 31 anni (volto, tra gli altri, di Lancome e playmate di Playboy); il figlio è Micah, nato nel 2014 con la sindrome di down. “È la prima volta che una persona con la sindrome di down è in copertina su Vogue. Che onore!”, ha commentato Amanda sul suo profilo instagram. La mamma ha raccontato di non essere ossessionata dai singoli progressi del figlio, ma di voler semplicemente vivere con la sua famiglia in serenità e gioia. Con il compagno e papà di Micah, Mike Quinones, ha creato un profilo (lifewithmicah) per raccontare il loro quotidiano: lo scopo è quello di “mostrare” come la vita di un bimbo con la sindrome di down non abbia nulla di diverso da quella di ogni altro bimbo: “Il nostro piccolo uomo è così incredibile che io dimentico completamente la sua sindrome”. Dopo una gravidanza senza test prenatali (“Non ci avrebbe cambiato niente”), la diagnosi giunse al terzo mese di vita di Micah: “All’inizio ci siamo veramente preoccupati. Ma poi, man mano che i giorni passavano e Micah si faceva conoscere ci abbiamo pensato sempre di meno”.
Giulia Galeotti, 2018
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.140