Massi è ancora molto bello, ma ha 28 anni e tenerezza ne fa un po’ meno. Anzi, una volta ci hanno impedito di salire — tra l’indifferenza totale degli altri passeggeri — sull’aereo, un volo Air France direzione Parigi. Il comandante ha temuto che la sua presenza avrebbe potuto turbare gli altri viaggiatori. L’ottusità del comandante, a onor del vero, ha una sua ragion d’essere: gli autistici esistono finché vanno a scuola. Da maggiorenni per lo più ghettizzati nei centri, sempre meno in giro diventano fantasmi e quando compaiono, sgomentano.
Da questa consapevolezza parte Gianluca Nicoletti nel suo bellissimo film Tommy e i suoi amici (2017), girato con il regista Massimiliano Sbrolla. Il protagonista è Tommaso, il figlio autistico del giornalista, il mentore chiamato a condurre il padre lungo tutto lo Stivale. Nel viaggio prendono così voce una ventina di storie, famiglie con figli, adulti, posizionati tra i vari gradi dello spettro autistico. Ragazzi come Tommy, chiamati a basso funzionamento, ragazzi con altre problematiche oltre all’autismo, altri infine estrosi e geniali. Un quotidiano autistico nascosto, mai presentato come macigno insostenibile, ma con quel pizzico di leggerezza e ironia che proprio i ragazzi speciali ci permettono.
C’è Achille che per amore di giustizia, alla Maddalena, in un isolotto di gabbiani, ha ridistribuito le uova in parti uguali nei nidi, con grande disappunto dei gabbiani che volavano e starnazzavano all’impazzata. C’è Giacomo grande e grosso col papà Walter, magrolino, in pensione e completamente dedicato a lui. C’è la mamma di Lorenzo in Calabria che si dispera per la girandola di insegnanti di sostegno, e sogna di andare in Trentino. Si resta senza fiato davanti alla storia di Paolo: doveva curare una carie e il chirurgo ha deciso di estrargli tutti i denti per “bonificare”. Poi Gabriella, ex medico, che ogni sera dopo che ha messo a letto Benedetta, la figlia ventenne, le scrive una lettera in inglese fingendosi Harry Potter: al mattino Benedetta risponde, sempre in inglese, confidando a Harry Potter i suoi pensieri. E ancora tante vicende ascoltate senza mai giudicare, come quelle di chi confida in cure spesso a costi esosi.
Da tutti la domanda: che ne sarà di mio figlio dopo di noi? Nel film — e non solo — si vede bene che nessuno ha voglia di rispondere: siamo incamminati in una strada di cui non vediamo la fine, né vogliamo vederla. Eppure il film non trasmette un senso di sconforto, o almeno non lo ha trasmesso a me. Da quando anche un politically correct come Arthur Miller teneva il figlio segregato i tempi sono cambiati. E piano piano cambieranno ancora.
Ma la sera dopo che ho visto il film di Nicoletti, la Rai ha mandato in onda Life Animated (2016). Il documentario, diretto da Roger Ross Williams, racconta la vita di Owen Suskind, bambino nato “normale” ma precipitato poi, all’età di tre anni, in una regressione che lo porterà a chiudersi sempre di più, finché gli verrà diagnosticata una patologia legata allo spettro autistico.
Owen ha un rapporto speciale con i cartoon Disney: i genitori capiscono che questa può essere la via d’accesso comunicativa con il figlio e così, passo passo, utilizzando le battute dei film che Owen conosce a memoria, madre e padre riescono a riportarlo fuori. Pur nella sua diversità, il giovane a 23 anni si laurea a pieni voti, va a vivere da solo, supera tranquillamente anche una delusione sentimentale.
Nel rispetto e la comprensione del dolore che è alla base della vicenda, da questo film ci si poteva aspettare ben altro. È tutto così a tutto tondo da imbarazzare. Genitori sempre sereni e all’unisono, fratello disponibile e all’altezza della situazione, terapisti in perenne stato di équipe pronti a rilevare ogni sfumatura per interventi mirati, Owen che progredisce in modo prodigioso giorno per giorno, case organizzatissime, mai problemi di tempo o di lavoro, prati verdi su cui giocare…
Si va addirittura oltre la fiaba di cui parla Propp: protagonista Owen, antagonista l’autismo, il mezzo magico i film Disney e tutti aiutanti buoni. I cattivi? I dubbi? Le regressioni? Qui l’american dream — tutto si può con lo spirito di frontiera — è in versione autistica, con l’happy end di rito.
I politici preferiscono che di loro si parli male ma che se ne parli, la visibilità è sempre meglio che essere dimenticati. Lo stesso vale per il problema dell’autismo e dei ragazzi che ne sono affetti, meglio un film discutibile che comunque tiene aperto il problema che il silenzio dell’indifferenza. L’importante però che le famiglie con bimbi piccoli non credano che per tutti valga il miracolo Disney, che avrebbe il solo risultato di farne impennare le vendite.
Nicla Bettazzi, 2018
(da L’Osservatore Romano – 8 novembre 2017)
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.140