Sempre la relazione con l’altro dà gusto e significato alla nostra vita. Con un malato giunto in fin di vita però, diventa difficile stabilire un contatto: si è di fronte ad una persona che soffre ed è l’ascolto di questa sofferenza che rende possibile la relazione.
Quando si è persa lo stima di sè
Nell’approssimarsi alla fine della vita, la persone malata, disabile o anziana, si vede costretta a perdere man mano le sue capacità: questa dipendenza rende via via penoso il rapporto con chi le è vicino: la sua immagine è alterata, le sue facoltà intellettive si affievoliscono; dubita di sé stesso, non si stima più: “Non sono più quella di prima, non so più se posso essere amata, gli altri si stancheranno di me.”
Questa perdita di stima, quando è forte, può portare le persone malate ad una disperazione tale da desiderare la morte: “Non so se mi riconoscono e mi amano così come sono ridotta; meglio morire che vivere Gosì” – Dobbiamo in questo caso acconsentire a questa eutanasia psichica: “E’ vero, ti capisco.”
In fin di vita, la persona vive l’incertezza. Tutto diventa inquietante: “Che cosa mi accadrà? Come si aggraverà la malattia? Come arriverà la morte? Sarò sola?” Alla paura di essere sola, di perdere la testa, di non poter controllare più niente, di non poter più esprimere la propria opinione, di essere completamente abbandonato nelle mani altrui, può aggiungersi la prova del dubbio profondo alla rimessa in questione d’i tutto, comprese le proprie convinzioni. Eppure attraverso questa sofferenza di totale spoliazione, qualcosa di più profondo può essere costruito.
Nei momenti in cui tutto sembra crollare, le persone malate hanno maggiori difficoltà ad entrare in relazione con gli altri. Nello stesso tempo, proprio in quei momenti, sono contente di trovare un orecchio attento al quale potranno dire un po’ di quel che provano, di essere rassicurate, di sentire che contano ancora per qualcuno.
Il senso di impotenza delle persone vicine
I familiari, gli amici, soffrono di veder soffrire. Può essere intollerabile stare vicino a qualcuno che non ha tregua nella sofferenza fisica. Immenso è il senso di impotenza. E’ doloroso per chi conosce bene il malato – marito o moglie, figli – non poter mettersi al suo posto, non capire quello che sta vivendo come sofferenza morale e spirituale. L’intensità del nostro amore non allevia la mia sofferenza e non gli impedisce di morire.
Ognuno si ritrova nella sua solitudine. Chi ha la fede può affidare il proprio caro a Dio. Ugualmente però, vivo questa impotenza di raggiungere l’altro nella sua sofferenza.
Mi ritrovo così a confrontar mi con i miei limiti, cosa mai facile soprattutto quando si vorrebbe fare tanto per l’altro e il tempo è contato.
La difficoltà di comunicare
Un’altra causa di sofferenza per chi è vicino al malato è la difficoltà di comunicare che aumenta nel caso di una grave malattia, della vecchiaia avanzata, dell’ avvicinarsi della morte.
E’ molto importante informare il malato sulla sua malattia e la sua evoluzione. Lui è il primo diretto interessato. Ma quante bugie, mezze bugie, inesattezze si dicono non per cattiveria ma per rendere più lieve una realtà che sembra troppo brutale per lui e per chi lo circonda. “Soprattutto non dirglielo, non deve saperlo”. Le informazioni devono essere date al malato poco per volta, al ritmo delle sue domande, in un clima di verità e di fiducia. Non per nascondergli qualcosa ma semplicemente perché sia da lui ascoltabile e comprensibile.
Le famiglie hanno bisogno di essere guidate ed aiutate in questo.
La domanda che il malato può porci: “Sto per morire?” fa a tutti paura. In realtà non viene quasi mai posta. In generale è il malato stesso che ci fa capire che sente nel suo fisico la morte vicina. Potrebbe dire ad esempio: “Credi che morirò presto?” Con le parole “morirò presto” già ci dice qualcosa, mostra di sentire qualcosa. Per non rimanere nella paura di questa domanda, impariamo a riformarla in maniera semplice: “Tu dici – morirò presto -; perché me lo dici? Che cosa provi?”. In questo modo ci darà lui gli elementi necessari per rispondere al suo interrogativo. Esercitarsi in questa piccola tecnica, in un’atmosfera di fiducia, evita di avere troppa paura delle parole che potrebbero farci male. Si può allora anche permettersi di balbettare o di dire: “Sai, le tue parole mi commuovono. Non so cosa risponderti. ”
Una riscoperta della reciprocità
A volte non è più possibile comunicare verbalmente perchè la malattia tocca le funzioni cerebrali o gli organi della parola; il malato è in uno stato di semi- coma oppure non ha più la forza di mormorare una sillaba. Dobbiamo tutti imparare la comunicazione “non verbale”; comunicare con gli occhi, con la mano, con il sorriso e leggere come una parola ogni piccolo gesto, ogni atteggiamento. É una prova continuare ad essere vicino a qualcuno senza sentire una reciprocità, anche se ciò non vuoI dire che non ci sia. Chi ha l’esperienza di persone con una pesante disabilità, sa come si può essere trasformati dalla loro presenza anche se non c’è alcuna apparente reciprocità nella comunicazione.
Dobbiamo credere in questa reciprocità anche se non la sentiamo. Il filosofo Paul Ricoeur diceva:
“Quando siete vicino a qualcuno che è alla fine della vita e con il quale non potete avere alcuna comunicazione lasciate forse quella stanza come al momento in cui vi siete entrati?” No!
Qualcosa è accaduta dentro di noi, qualcosa ci ha toccati, trasformati o ci sta trasformando. L’altro, nella sua grande vulnerabilità, mentre non è più affatto in grado di comunicare con noi, ma semplicemente perchè abbiamo il coraggio di stargli vicino, in una presenza attenta, questo altro ci sconvolge e ci cambia profondamente.
di Marie-Sylvie Richard – Ombre e Luci n. 88, 2004