Non tutte le leggi cambiano la cultura, ma, nel mondo della disabilità, ciò è avvenuto in maniera evidente in più di una occasione. Il recente successo della fiction televisiva “La classe degli asini” ha richiamato all’attenzione generale il processo che ha condotto alla scelta dell’inclusione scolastica obbligatoria in tutti gli istituti di ogni ordine e grado. La scuola è un luogo primario dell’inclusione e la scelta fatta al volgere degli anni ‘70 – in termini che ancora oggi risultano essere pionieristici – ha condizionato la cultura della disabilità in Italia fino ad oggi. Se nel nostro paese, a differenza che in quelli di cultura anglosassone, non hanno avuto particolare sviluppo i disability studies, si può affermare che un cambiamento culturale analogo sia stato introdotto dalla presenza nelle scuole italiane di moltissimi disabili, in percentuali sconosciute in qualsiasi altra parte del mondo.
L’inclusione scolastica, la legge quadro sulla disabilità (la 104), quella sull’inserimento lavorativo e soprattutto l’ICF e la Convenzione hanno mutato in maniera significativa ed irreversibile la percezione che le persone con disabilità hanno di se stesse, delle proprie capacità e dei propri diritti. L’espressione “Valgo anch’io”, scelta come brand di una campagna per l’inserimento lavorativo promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, rappresenta bene questa nuova situazione. I disabili italiani hanno preso coscienza del proprio valore e del proprio ruolo in maniera nuova rispetto al passato: la generazione dei giovani con disabilità sta crescendo in un ambiente – scolastico, sportivo, associativo, ecc… – generalmente inclusivo, in cui la presenza della differenza non desta, generalmente, particolari problemi. Senza nascondere le difficoltà – anche gravi – che negli ultimi anni sta incontrando l’inclusione scolastica, si può affermare essa sia sostanzialmente riuscita, come ha riconosciuto di recente l’ONU elogiando l’Italia per questo risultato.
Oggi la presenza delle persone con disabilità è di gran lunga più normale e tollerata che in passato: si può ascoltare il Presidente della Repubblica elogiare un’atleta con disabilità nel suo discorso di fine anno, si possono ammirare le opere di artisti con disabilità, come quelli dei Laboratori d’arte di Sant’Egidio, alla Biennale di Venezia o al MAXXI di Roma, non desta stupore mangiare in uno dei tanti ristoranti dove lavorano camerieri o cuochi con disabilità, proprio perché il processo di integrazione scolastica e la riflessione sui diritti delle persone con disabilità hanno prodotto i loro frutti maturi.
È un processo che ha mutato la percezione che i disabili hanno di sé (Valgo anch’io!), ma che ha cambiato allo stesso modo la considerazione che la società ha di loro. In questo ambito la novità più significativa sembra essere quella che si è verificata all’interno delle famiglie: all’abitudine a nascondere i disabili (che pure non è del tutto scomparsa) ed al senso di vergogna o di colpa per la nascita di un figlio con difficoltà, stanno subentrando sentimenti differenti. La pubblicazione di molti libri, più o meno autobiografici, scritti da genitori di “figli speciali” dimostra un approccio differente e meno pessimista. Ma soprattutto l’insistenza sul tema del “Dopo di noi” dimostra che i genitori di oggi sognano qualcosa di diverso e di migliore per i propri figli con disabilità.
Non è raro ascoltare testimonianze di genitori che parlano dell’angoscia che genera in loro il pensiero del futuro del proprio figlio quando essi non ci saranno più. Tale preoccupazione segnala innanzi tutto la novità dell’allungamento della vita dei disabili che fa sì che essi in maniera sempre maggiore sopravvivano ai propri cari, ma evidenzia come questi ultimi abbiano iniziato a considerare insopportabile ciò che fino a poco tempo fa era normale: cioè il ricovero del proprio figlio con disabilità in istituto. È una importante novità: l’istituzionalizzazione – che purtroppo resta ancora oggi ampiamente diffusa e che in molti casi continua ad essere l’unica soluzione proposta – era il destino ineluttabile per la grande maggioranza delle persone con disabilità. Lo scarto era prassi diffusa ed accettata. Oggi, invece, tale prospettiva genera l’angoscia delle famiglie. È questo il sentimento che ha portato alla presentazione di ben cinque proposte legislative, poi confluite nel provvedimento sul “Dopo di noi” approvato di recente. L’istituzionalizzazione, ieri normale, oggi è vissuta con angoscia ed in molti casi rifiutata.
Si tratta, come si diceva, di un ulteriore segnale di quel cambiamento della cultura che circonda il mondo della disabilità prodotto dalle innovazioni legislative che hanno contraddistinto la vicenda italiana a partire dagli anni ‘70.
Il problema è che in questi anni la possibilità di esigere i diritti asseriti non è cresciuta con la stessa velocità ed ha creato un gap tra la coscienza che i disabili hanno di sé e ciò che è loro realmente riconosciuto. Di fronte alla consapevolezza che per una persona con disabilità è possibile lavorare come tutti, si erge il muro del malfunzionamento dei centri per l’impiego e della crisi del sitema dell’inserimento obbligatorio. Allo stesso modo, l’affermazione del diritto di scegliere il luogo in cui vivere garantito dall’art. 19 della Convenzione, è contraddetta dalla difficoltà di trovare posti nelle case-famiglia dei Comuni e dalla loro quasi totale assenza al Sud. La conquista del riconoscimento della propria personalità giuridica, garantita dalla legge sull’ammistrazione di sostegno, è mutilata dallo stato disastroso in cui versano alcuni tribunali civili.
Per descrivere la situazione nella quale vivono le persone con disabilità e le loro famiglie può essere utile parlare di frustrazione e di angoscia. La prima è il sentimento che essi stessi vivono consapevoli dei propri diritti, ma non messi in grado di esigerli, la seconda è la condizione dei genitori che non trovano nei servizi sociali risposte alle domande sul futuro. Si tratta di sentimenti la cui percezione è acuita dalla dissimetria con la quale sono cresciute le aspettative ed i servizi, la coscienza di sé e la possibilità reale di esigere i propri diritti. Nessuno più mette in discussione che “Valgo anch’io”, ma poi, quando si tratta di trovare un lavoro o andare a vivere da solo, le porte sono quasi tutte chiuse.
Questa situazione, che si potrebbe definire di crescita culturale e di stagnazione delle risposte pubbliche, ha favorito la nascita di numerose realtà associative e di iniziative intelligenti e fantasiose da esse realizzate. Come si diceva, “Valgo anch’io” è l’espressione scelta dalla Comunità di Sant’Egidio per promuovere una rete di ristoratori solidali. In Italia esistono almeno quaranta esperienze di ristoranti dove lavorano camerieri o cuochi con disabilità intellettiva. Si tratta di proposte innovative nate al di fuori delle reti di assistenza al lavoro delle province, ma che rispondono in maniera concreta al bisogno di lavoro (e quindi di dignità, di riconoscimento della propria individualità, ecc…) che i giovani con disabilità esprimono in maniera sempre più chiara ed esigente. “Valgo anch’io” è il tentativo di metterle in rete, ma le iniziative sono tutte autonome e sono nate in maniera spontanea laddove se ne è ravvisato il bisogno e si sono trovate le energie per avviarle.
Un discorso analogo si potrebbe fare per le tante esperienze residenziali innovative nate dal tessuto associativo o da semplici gruppi di genitori, ma quello che in questa sede preme sottolineare è come la nuova cultura della disabilità, di cui la 104 e la Convenzione sono momenti importanti, abbia faticato a tramutarsi in risposte istituzionali, generando frustrazione ed angoscia, ma abbia prodotto un fermento dal basso che è la prospettiva migliore che in questo momento si presenta di fronte agli italiani con disabilità.
Vittorio Scelzo, Comunità di Sant’Egidio, 2016
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.136