Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo
viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi:
noi non aspettiamo altro che ne scocchi l’ora.
Come un ceppo nel fuoco,
così noi sappiamo di dover essere consumati.
Come un filo di lana tagliato dalle forbici,
così dobbiamo essere separati.
(…) La passione, noi l’attendiamo.
Noi l’attendiamo, ed essa non viene.
Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione,
che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria,
di ucciderci senza la nostra gloria.
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
è l’autobus che passa affollato,
il latte che trabocca, gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gl’invitati che nostro marito porta in casa
e quell’amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere;
è voler uscire quando si è chiusi
è rimanere in casa quando bisogna uscire;
è il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene.
Così vengono le nostro pazienze,
in ranghi serrati o in fila indiana,
e dimenticano sempre di dirci
che sono il martirio preparato per noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo,
aspettando – per dare la nostra vita –
un’occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che
come ci sono rami che si distruggono col fuoco,
così ci son tavole che i passi lentamente logorano
e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che
se ci son fili di lana tagliati netti dalle forbici,
ci son fili di maglia che giorno per giorno
si consumano sul dorso di quelli che l’indossano.
Ogni riscatto è un martirio,
ma non ogni martirio è sanguinoso:
ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita.
È la passione delle pazienze”
Un foglietto trovato per caso sulla panca di una chiesa di Milano da un’amica della mamma: sarà la decima volta che Viola rilegge queste parole. E ogni volta le comprende meglio. Comprende meglio il senso di quel che l’autrice, la mistica, poetessa e assistente sociale francese Madeleine Delbrêl (1904-1964), voleva trasmettere. È una figura bellissima quella della Delbrêl che nel 1935, al numero 11 di rue Raspail nella periferia operaia di Parigi, insieme ad alcune compagne, avviava il suo progetto di semplice vita fraterna a stretto contatto con le donne e gli uomini del quartiere. Una presenza cristiana viva tra la gente scristianizzata del suo tempo, una presenza di fede, vita e rivendicazioni sociali a opera di una donna nata atea «radicale e profonda», che a vent’anni si convertì al cattolicesimo (il convertito, disse una volta, «è una persona che scopre la meravigliosa fortuna che Dio è»). Viola riinizia a leggere, e un altro granello della sua vita va a combaciare con le parole di questa donna, così lontana ma così vicina.
Giulia Galeotti, 2016
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.134