Ad aprire il convegno sono le parole di Antonio Mazzarotto, presidente dell’Associazione, a proposito della duplice anima di una casa famiglia: istituzionale, ovvero come servizio per la comunità (alloggio, cura della persona, ecc.) e relazionale, ossia come legame affettivo tra chi ci vive. La sostenibilità di una casa famiglia è data dalla qualità di questi due aspetti, come sottolineano, subito dopo, gli stessi Matteo e Ivana, fondatori del Carro, mentre raccontano gli impegnativi (e gioiosi) venticinque anni del loro viaggio.
Se le sovvenzioni comunali sono arrivate dopo ben diciassette anni, l’amore e la dedizione sono state le fondamenta del Carro sin dalla prima ora. Come si crea una relazione con una persona disabile? «Sedendosi accanto a lui durante la giornata, condividendo, mangiando insieme, o stando semplicemente in silenzio» conclude Ivana, che invita inoltre con sincero ottimismo ad intraprendere la stessa strada fatta dal Carro, perché, pur con mille difficoltà, «si può fare!».
Un’operatrice e un volontario, a seguire, raccontano il loro legame con l’associazione, anche negli aspetti più pratici (descrivendo, ad esempio, una giornata tipo), lasciando trasparire non poca emozione mentre scendono nei particolari del rapporto con i ragazzi. Chiude la serie di testimonianze una mamma, Nunzia Giancola, che rimarca la preoccupazione, sua e di ogni genitore, sul dopo di noi, spiegandoci nello specifico i desideri per il futuro della figlia.
«La persona diversa è altro da noi ma è come noi. Bisogna incontrare il cuore, non soltanto il suo limite, non soltanto il suo errore» afferma Luca Russo dell’Associazione Giovanni XXIII (una comunità presente in 32 Paesi con 253 case famiglia in Italia), sottolineando quanto sia importante scavalcare il pregiudizio e la paura in favore di una accoglienza proveniente dal cuore. Gli fa eco Fabrizio Aphel, dell’Associazione Loic (organizzata in due case famiglia a Capena), che rimprovera la tendenza a notare «sempre ciò che manca e non ciò che c’è». Russo e Aphel hanno offerto uno sguardo esterno, proveniente da direzioni opposte (cattolica la prima, laica la seconda) ma rivolto allo stesso orizzonte: l’accoglienza in una famiglia non deve conoscere barriere, così come non deve conoscerne una casa famiglia.
Chiudono il convegno alcune analisi e statistiche ad opera di Luigi Vittorio Berliri, presidente di Casa al Plurale (associazione che riunisce 18 organizzazioni operanti nel territorio laziale sul fronte dell’integrazione sociale). Il quadro emerso è scoraggiante dal punto di vista economico: nonostante l’incidenza del solo 0,003% sul bilancio nazionale, non vi è l’intenzione di aumentare i fondi destinati alle case famiglia, che, manco a dirlo, attualmente non sono sufficienti per un servizio di qualità. Fortunatamente è il quadro umano ad eccellere e a compensare le carenze istituzionali: là dove manca il supporto economico, la rete di relazioni trova la giusta strada e le energie necessarie per la cura e l’accoglienza del più debole, tramite volontariato o con la condivisione di spazi e mezzi.
Il prof. Giancarlo Cursi, docente alla Facoltà di Scienze dell’Educazione all’Ateneo Salesiano, ha infine presentato i risultati di un’indagine su 19 case famiglia romane evidenziandone le caratteristiche nella gestione (amministrativa ma anche pratica). Intervistando chi vive all’interno di queste realtà, emerge un forte legame di appartenenza alla casa famiglia nella stragrande maggioranza dei casi. I benefici a livello relazionale e comportamentale, soprattutto tra le persone con disabilità, sono infatti sorprendenti.
Matteo Cinti, 2015
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.130