Vuoi bene a Gesù?… E allora basta…”; nel lessico quasi famigliare di via Benucci era diventato il nostro saluto con Mariangela. Garbatamente irriverente; bonariamente cinico; rispettosamente dissacrante; soprattutto evocativo di comuni aspetti di esperienza e di identità (padre Alberto Parisi e madre Pantanella; il San Roberto Bellarmino e il Nazareth; padre Giorgio Flick e padre Cascino “che accascia”; la nascita di Santa Silvia e il passaggio del testimone fra don Marcello e don Antonino…).
Ho conosciuto Mariangela e Paolo cinquanta anni fa, andando a trovare su richiesta delle mitiche sorelle Bertolini (Mimma e Toti in particolare) i loro fratelli nell’altrettanto mitica via Benucci. Trovai un mondo che poco dopo, grazie a loro, sarebbe diventato il mio mondo e la mia quasi seconda casa.

Ero a Roma da poco tempo, solo e impegnato a studiare per il concorso in magistratura, praticamente senza amici e senza casa, in una camera ammobiliata (si fa per dire) in via Gregorio VII. Avevo lasciato a Genova la mia numerosa famiglia. L’ingresso a via Benucci – dove mi trasferii su indicazione della “comunità”, nell’attico all’ultimo piano; e dove rimasi per dieci anni, prima solo e poi con mia moglie Simonella – fu come entrare quasi in una seconda famiglia; una di quelle preziose ed essenziali “formazioni sociali ove si svolge la personalità”, cui si riferisce l’art. 2 della Costituzione.

Un caos; un continuo salire e scendere le scale di grandi e piccoli; una felice confusione di adulti, zii e zie, padri e mamme, bambini fra i quali Nanni – di cui incautamente (per la mia neghittosità) Mariangela e Paolo mi vollero padrino – e le nostre prime due figlie, Caterina e Alessandra.

Era un mondo di serenità; di canti di montagna e di litanìe “della vacca e del mulo”; di gossip sul vicinato e sui conoscenti; di progetti su dove passare le vacanze (da Donoratico a Cogne); di litigate politiche; di cene in cui ci intrufolavamo a casa di Mariangela trovandola sempre disponibile; di ricerche e di beghe sulle collaboratrici domestiche; di discussioni interminabili con Paolo su altrettanto interminabili vicende storiche o su questioni musicali; di riflessioni insieme (ma non sempre d’accordo) sui grandi temi del Concilio Vaticano II e sul contrasto tra progressisti e conservatori (io ero guardato con sospetto e collocato fra questi ultimi).

Su quel mondo, sempre serena e imperturbabile, vegliava Mariangela con il suo sorriso: un sorriso che non venne mai meno, anche quando se ne andò la sua primogenita, Bimbolina. Ricordo in particolare la serenità di Mariangela (un pianto senza lacrime, vorrei dire se non cadessi nella melassa del sentimento) la sera della veglia prima del congedo a Santa Silvia.

Con quella serenità Mariangela “amministrava” lo scorrere della vita, anzi delle vite nel condominio: e i problemi erano tanti (i suoi fratelli e sorelle; le loro famiglie; l’insegnamento; Fede e Luce), stancanti, continui; ma l’ho sempre vista sorridente, capace di una parola buona, disponibile ad ascoltare.

Poi, la vita ci ha portato fuori dalla quasi famiglia di via Benucci. Abbiamo continuato a vederci, ma via via sempre più raramente: sia per le distanze romane; sia per la mia pessima abitudine di buttarmi a capofitto nel lavoro e di metterlo davanti a tutto il resto (un’abitudine che è peggiorata con il passare del tempo).

Quando due anni fa ci siamo rivisti tutti una sera a Santa Silvia, per l’anniversario di matrimonio di Mariangela e Paolo, con alcuni (tanti) anni in più, ho ritrovato lo stesso clima, la stessa serenità – anche se più stanca e sofferta – in noi anziani come nella generazione che ci ha seguito. Ho sentito un po’ di nostalgia e tanta gratitudine per Mariangela, cui soprattutto andava e va il merito di quel clima, almeno per me.

È il clima che Mariangela ci ha lasciato all’Ospedale Sant’Andrea e a Santa Silvia, il sabato mattina in cui la abbiamo salutata: non sembrava certo per l’ultima volta.

Nella Messa del congedo, mentre riflettevo sulle letture e mi veniva in mente la complessità – non oso dire la complicazione e qualche volta la noia delle lettere di San Paolo (per questo raccontai una volta a Mariangela che la 118° lettera agli Efesini iniziava “Ma quando rispondete?…) – ho finalmente trovato un brano che capivo e mi colpiva, l’inno alla carità nella prima lettera ai Corinti (13, 1-13) «E se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato, ma non ho la carità, non mi giova a nulla. La carità è magnanima, è benigna la carità, non è invidiosa, la carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità; tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine…».

Ho riletto tante volte quel brano; mi piace pensare che, scrivendolo, San Paolo aveva anticipato la vita e la testimonianza di Mariangela; e desidero ringraziarla per la lezione di vita che ci ha lasciato, in un mondo di globalizzazione e di corruzione che gira al contrario.

Giovanni Maria Flick, 2014

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.128

Vuoi bene a Gesù? ultima modifica: 2014-12-15T14:58:23+00:00 da Giovanni Maria Flick

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