Un’amica, Manuela Bartesaghi, dagli entusiasmi impetuosi, mi aveva parlato di Jean Vanier, delle Arche e delle “comunità di incontro” di Fede e Luce basate sull’amicizia per i ragazzi handicappati (allora si usava questa parola) e i loro genitori. Questa amicizia mi pareva finzione caritatevole e un po’ ipocrita, mi pareva più giusto parlare di una buona azione per gli handicappati e le loro famiglie che vivono una vita molto difficile. Ma quando, molti mesi dopo, mi affacciai alla comunità S. Francesco nata da poco, vidi che mi sbagliavo.
E quando Manuela mi disse che una tale Mariangela, figura guida di Fede e Luce, voleva fare una piccola rivista e aveva bisogno di un aiuto, essendo la stampa il mio lavoro andai.
E incominciai a conoscere Mariangela, attraverso le riunioni di redazione, la scelta dei temi, il taglio degli articoli, il tono dei titoli, le fotografie. La sentii parlare di Chicca, sua figlia, molto grave, morta da poco a 15 anni. La sentii parlare di altri genitori e dei loro figli gravati da pesanti menomazioni. Conosceva per dura esperienza, non per letture o buoni sentimenti altruistici, la grande fatica e la sofferenza dei genitori di figli segnati da una minorazione mentale (spesso anche fisica), la tristezza di vedere i figli “brutti” e guardati con fastidio e diffidenza, l’angoscia per quel che sarà del figlio che amo quando non ce la farò più, non sarò più, la rabbia delle domande a Dio.
– Ho delle domande da fare a Dio quando lo vedrò – diceva.
Quella conoscenza profonda, sofferta, condivisa, era la radice di tante scelte e anche impuntature. Spesso sui titoli e sulle fotografie da pubblicare. Per me contava l’efficacia: comunicano ad alta intensità, spingono chi sfoglia a leggere e guardare? Mariangela aggiungeva un intransigente “purché”. Purché la pagina non infastidisca nessun genitore o amico, non riduca la sua speranza, non mostri “brutto” chi è segnato da una minorazione, amplificando l’idea della bruttura delle persone minorate. A questo aggiungeva (per fortuna) una certa durezza, un fastidio per la leziosita – “gnè-gnè” la definiva – che vedeva in pie rivistine e pii articoli.
Preferiva sempre testi e immagini che facessero sentire i genitori meno tristi, meno scoraggiati, meno vittime di forze maligne e di colpevolizzazioni. Ed ecco gli articoli per far conoscere istituti che migliorano la condizione psicofisica dei ragazzi, le esperienze di accoglienza di buona qualità, la esposizione di studi scientifici che danno le ragioni delle “debolezze” di quei figli e trovano modi per aiutarli.
Non ricordo articoli sull’amore di Dio per questi ragazzi e per i loro genitori, ma racconti di esperienze in parrocchie e diocesi per avvicinare quei figli ai sacramenti oltre il battesimo, cosa esclusa fino a pochi anni prima.
Per comunicare queste cose ai genitori, agli amici, ai sacerdoti e religiosi, a chi volesse capire la realtà umana, scientifica, spirituale del mondo delle persone segnate direttamente o indirettamente dalla minorazione mentale, per 32 anni Mariangela è stata il motore principale di questa piccola rivista, nata per fede e per dar luce, mai per pavoneggiarsi.
Sergio Sciascia, 2014
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.128