Nella prova, nella vertiginosa scalata del mio Himalaya, la mia fede in Dio è così diventata lanterna, o più esattamente la mia lampada frontale; quella che gli alpinisti fissano intorno alla testa, ben centrata sulla fronte per vedere dove mettono i piedi e rendere sicuro il loro cammino.
Questa lampada mi permette di schiarire la mia strada, di scacciare l’angosciante oscurità e andare avanti con fiducia. Il suo fascio luminoso non arriva fino alla cima, dispensa una luce solo sul cammino da percorrere, passo dopo passo, giorno per giorno. Mai più lontano. La lampada mi aiuta a preoccuparmi solo della giornata in corso, senza angosciarmi per il futuro. Ieri era, domani sarà, solo oggi è.
La fede non mi impedisce di soffrire
Una mamma avvilita mi ha fatto questa osservazione: “Come la invidio. La prova è più facile per lei perché ha fede in Dio”. Ho colto perfettamente il senso della sua frase. E tuttavia… Se sapesse fino a qual punto ho sofferto! La sua pena non ha niente da invidiare alla mia.
Nel momento dell’addio di Thais, ho provato l’insondabile dolore di una mamma che perde la carne della sua carne, credente o no. Nell’istante in cui la fredda terra ha ricoperto il corpo adorato di Thais, ho conosciuto l’oscurità, ho vissuto le tenebre, come ogni madre che non può più vedere suo figlio. La fede non mi impedisce di soffrire. Non è la panacea, il rimedio miracoloso contro i mali del corpo e del cuore. La fede non risparmia nulla del dolore umano; sta solamente prima di una barriera: la disperazione.
Estratto da Une Journée pariculière di Anne-Dauphine Julliand
Les Arènes, maggio 2013 p. 120-123
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.126