Nostro figlio Simone aveva tre anni quando ci hanno fatto notare il suo comportamento diverso. Sollecitati a fare delle ricerche, ci siamo fermati, sostenuti dal medico di famiglia che ci aveva sempre consigliato di lasciarlo crescere in pace. Ed è ciò che abbiamo fatto!
All’inizio della scuola, le difficoltà divennero più evidenti: per questo ci siamo messi a cercare in tutte le direzioni: genetica, gastroenterologia, per un problema di incontinenza. Psicologi e pedopsichiatri hanno fatto delle valutazioni per l’ortofonia e la psicomotricità. Simone è disarmonico, ci hanno detto, cosa che può significare tutto e niente.
Questo percorso ha permesso di eliminare una dopo l’altra le cause fisiologiche. Certo, ero sollevata che il suo problema non fosse genetico, ma di fronte a questo avvicendarsi di diagnosi, sono precipitata in un sentimento di rivolta, di colpevolezza: che cosa avevo fatto a mio figlio perché fosse così?
Quando Simone ha compiuto 7 anni, abbiamo consultato uno specialista di disturbi pervasivi dello sviluppo. Quando questi ci ha detto che nostro figlio non soffriva di turbe del comportamento, ho provato sollievo e una grande depressione insieme.
Ancora una volta, non sapevamo contro chi batterci. I medici continuavano a ripeterci che era una buona notizia, noi avevamo continuato a combattere lo sconosciuto, a sentirci prepotenti, prigionieri di qualcosa che non conoscevamo. Cercavamo di mettere in atto un mucchio di cose per aiutarlo e niente andava bene.
Inclassificabile
Oggi oscillo fra il desiderio e il rifiuto di cercare una diagnosi per paura che Simone sia stigmatizzato.
Similmente, non voglio che nostro figlio abbia un’etichetta e nello stesso tempo mi dico che sarebbe rassicurante, anche se doloroso. Ad ogni modo, Simone è sempre stato inclassificabile. E, in un certo senso, è sul limite, cresce in certi aspetti, non in altri. Per esempio sa leggere e scrivere ma è in una classe di integrazione scolastica e tutto ciò che è astratto non ha consistenza per lui. Abbiamo scoperto un metodo con il gioco che ci sembra potrebbe aiutarlo.
Per finire, ho l’impressione di sapere in quale direzione andare! Ma, come mio marito, mi rifiuto di usare il termine handicap perché sarebbe una forma di rassegnazione. Simone stesso non vorrebbe che usassimo questo vocabolo
Quanto a ritornare da un medico… non ce la faccio neanche a portarlo dal dentista.
Virginia Lespingal, 2013
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.122