In uno degli ultimi libri pubblicati con i testi del cardinale Martini “Famiglie in esilio”, c’è un capitolo intitolato “L’immagine di Dio nei figli” di cui voglio riprendere un paragrafo.
“Un particolare problema si pone allorché si tratta di riconoscere l’immagine di Dio anche sul volto di un figlio nato con un handicap fisico o psichico o con entrambi. Occorre allora una grazia straordinaria dello Spirito Santo e l’aiuto affettuoso e perseverante della comunità cristiana (vengono alla mente i gruppi di “Fede e Luce” e altre iniziative simili) per fare in modo che una grande prova — tale da indurre a una diuturna amarezza e anche a una vera e propria disperazione — appaia invece un’occasione nuova e sorprendente per comprendere come Dio abiti nel cuore di questi piccoli e li faccia evangelizzatori efficaci della comunità e degli stessi genitori”.
Del lungo paragrafo, la frase che voglio ora prendere in considerazione perché nuova e piena di significato, è quella qui sopra evidenziata. Davvero mi sembra che queste parole aprano nel nostro orizzonte una nuova prospettiva. Penso infatti che tutti noi, anche se da angolature diverse, vediamo la presenza di questi “piccoli” nella vita della Chiesa auspicabile e giusta, senza alcun dubbio, ma anche onerosa e difficile (quasi un peso che la comunità cristiana si deve accollare per essere, appunto, cristiana).
Di conseguenza tutti noi siamo fuori strada; nel senso che la presenza dei “piccoli” nella vita ecclesiale — secondo il pensiero del Card. Martini — va invece vista ed è destinata ad essere non un peso ma un aiuto, una sorta di collaborazione efficace, a sostegno di tutti.
Propongo di riflettere insieme, con molta umiltà e semplicità, su questo tema: forse nel profondo del nostro cuore sentiamo che sì, è proprio così, Martini vede chiaro e giustamente, ma è difficile rendere ragione di questo sentire con le parole ed i fatti.
Evangelizzare, per riprendere il termine usato da Martini, significa, dal greco portare una buona notizia, buona e bella davvero. Nel linguaggio cristiano la leghiamo all’amore di Dio e, di conseguenza, alla gioia, alla salvezza, alla liberazione. Come è possibile che “questi” piccoli ci aiutino, tutti noi, ad entrare ed a percorrere queste strade così difficili e misteriose?
Pensare all’amore di Dio mi fa fare un passo indietro e rifletto che il primissimo catechismo Dio lo ha assicurato davvero a tutti. Ogni figlio d’uomo, infatti, nasce (o almeno dovrebbe) in un contesto d’amore e questo amore per quanto grande non è che una pallida ombra dell’amore di Dio per le sue creature. Voglio dire con questo che la prima bella notizia, la prima evangelizzazione nasce spontaneamente, viene dai genitori che portano (a volte o spesso del tutto involontariamente) questa immagine di Dio stampata nei loro cuori, che si riverbera sul piccolo nato ed è destinata a lasciare una impronta determinante nel destino del loro figlio.
Ma torniamo al catechismo vero e proprio, essenziale perché i bambini crescano nella vita cristiana, apprendano le prime “verità” su Dio e l’uomo, entrino nelle prime forme di religiosità in comune, pongano le prime basi del senso della loro vita e della loro fede.
Penso ora in particolare ai gruppi di catechismo di Prima Comunione dove, con un po’ di preoccupazione, parroci genitori e catechisti desiderano inserire bambini con più o meno gravi difficoltà.
Ci si chiede come fare perché la situazione non generi ansia e non crei problemi per nessuno… Ma se diamo credito alle parole del nostro amato e venerato cardinale, dobbiamo pensare invece a come fare emergere questa grazia nascosta che è in loro, come accoglierla, farla diventare efficace, una vera benedizione per tutti.
La presenza di un bambino “diverso” nel gruppo sicuramente calamita l’attenzione di tutti, e può portare sgomento e confusione. Forse sarebbe bene evitare in questi primi momenti spiegazioni e commenti, mentre mi sembra più efficace che il catechista tenga un atteggiamento vigile, attivo e affettuoso e sappia indicare gesti e parole che esprimano accoglienza, calma e disponibilità.
Se il catechismo deve aiutare i figli degli uomini a crescere come figli di Dio nella grande famiglia della Chiesa, è in questi incontri e in questo clima che può iniziare la loro crescita, (in presenza di un amico particolare) con l’essere accompagnati per la prima volta a capire e a sperimentare che l’amore non è solo ricevere, essere colmati di attenzione e affetto da parte dei genitori e parenti, ma è anche dare, offrire, sentirsi capaci di gesti di aiuto e vicinanza. Può cominciare a farsi strada in loro un sentire che non tutti gli adulti, anche cristiani, sembrano conoscere; un concetto importante del vivere che dice che l’amore non è sentimento e commozione, non solo almeno, ma è sentire forte: “voglio che tu stai bene”.
Ma il catechista ha, di fatto, un compito difficile e complesso. Oltre a vegliare perché il clima sia benefico per tutti i suoi alunni deve portare in mezzo a loro la Parola della nostra storia sacra – storie e racconti e anche ammaestramenti e verità. Ora, sappiamo che i bambini con difficoltà di attenzione, di apprendimento o altro, non sono spesso in grado di seguire e nemmeno di restare fermi per qualche tempo. Molti catechisti si servono già per questi casi di aiuti diversificati come disegni o musica … ma alcuni di loro sentono e desiderano fare qualcosa si più.
Come diceva già Paolo VI nell’Esortazione Apostolica “Evangelizzazione del mondo contemporaneo” del 1976, non basta che le parole della nostra Fede siano sentite con le orecchie e capite con la ragione: devono entrare nel cuore inteso come centro dell’esistenza o nucleo dell’esperienza vitale.
Penso che il presupposto sia di cercare in quello che comunichiamo il punto essenziale. Dovremo chiederci cosa voglio davvero che capiscano, e in che modo ciò che sto per dire può entrare nella loro vita di ogni giorno, rendendo significanti i loro gesti di oggi e gettando le basi per la loro vita di domani. Una volta individuato il nesso con la loro vita, allontanato ciò che è superfluo e troppo complicato, è più facile intrattenere i bambini. Si parla della vita, della loro vita ed allora è possibile coinvolgerli in piccole realistiche rappresentazioni in cui ognuno abbia una parte.
Penso, per portare un esempio, alla preparazione della prima Confessione, a come farli entrare nella realtà del perdono di Dio presentandolo come luce che deve illuminare il nostro saper perdonare e perdonarci. Possono facilmente scoprire come è bello e come dà una grande gioia “fare la pace”, come dicono loro, dimenticando sgarbi, torti subiti e fatti… ridiventare amici.
Tutto questo si può realizzare insieme, drammatizzando piccole e grandi offese, negligenze e errori, liti seguiti da ammissioni, scuse e abbracci… parteciperanno tutti, anche il bambino con problemi, si divertiranno e capiranno.
Forse il succo delle mie parole vuole essere questo: la persona con handicap presa come emblema della difficoltà e a volte del dolore terribile del vivere, ci porta, quando le si vive accanto, a rifiutare le divisioni, l’ovvio, il semplicismo e la superficialità eretti a sistema. Ci costringe ad interrogarci, a scoprire “cose” nuove – un po’ come faceva Gesù . Le sue parabole, a volte semplici, a volte incomprensibili, celavano realtà più preziose delle gemme. Ma bisognava aver fede per scoprirle ed accoglierle. Bisognava aver fiducia in Lui anche perché avvenissero, a volte, i miracoli.
Lucia Bertolini, 2013
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.121