Quante persone, sacerdoti, suore, laici, hanno visto in diretta – tramite la televisione nel giorno di Pasqua – quell’abbraccio fra il Papa e il ragazzino spastico in piazza San Pietro. Chi conosce un po’ da vicino questi ragazzi, non fatica a immaginare l’emozione e la corrente di simpatia che sono scaturite in quell’istante.
Il Papa, per conto suo, non vedeva l’ora di poter dire al mondo quanto desiderasse quell’abbraccio. Il piccolo Dominic sembrava saltar fuori da quelle braccia tanto era felice in quel momento…
Che cosa si sono detti? Nulla. Ci sono gesti che non hanno bisogno di parole: chi di noi non ha esultato nel suo cuore, non ha capito che il Papa voleva trasmettergli un messaggio breve ma importante per tutta l’umanità: “Questo è il mio figlio prediletto” a somiglianza di quanto Dio Padre ha detto al momento del battesimo di Gesù, presentando al mondo suo Figlio.
Perché questo episodio è così importante e ci ha scossi tutti dal nostro torpore?
Chi, come molti di noi, ha consacrato per necessità o per scelta, la sua vita alle persone con handicap, sa per averlo provato sulla propria pelle, quanti rifiuti ha dovuto subire – anche da parte di persone di Chiesa – nei confronti di chi porta su di sé in modo evidente i segni dell’handicap. Sa, per averlo sopportato in silenzio, quanto quei rifiuti abbiano segnato in modo negativo il suo rapporto con la Chiesa, la fede, la religione…
Mi torna in mente il racconto amaro e sconcertante che mi fece un giorno il fratello di una giovane disabile, difficile, incapace per il suo comportamento, di stare ferma in un banco in chiesa, e di farla tacere se voleva urlare; il tutto in modo imprevedibile. Però faceva parte della comunità, tutti la conoscevano e, anche se a fatica, la “sopportavano” perché avevano imparato a volerle bene.
Mi disse che la Domenica delle Palme c’era stato in parrocchia un incontro con Papa Giovanni Paolo II, cosa che ci aveva fatto sperare in un’accoglienza benevola e affettuosa delle persone con handicap. Eppure, il parroco lo aveva mandato a chiamare il fratello di Maria, per chiedergli con apprensione e vergognandosi un po’, se per l’evento poteva lasciare a casa Maria – che altrimenti avrebbe disturbato troppo la celebrazione.
Il poverino disse di sì, che aveva capito.
Quando me lo raccontò però, io gli dissi che non avevo capito; che bisognava spiegare a quel parroco che Giovanni Paolo II, ma soprattutto Gesù, sarebbero rimasti profondamente offesi sapendo che la presenza di Maria li avrebbe “disturbati”…
Sa quanta ribellione, rivolta, rabbia, siano scaturite da quei “modi di fare” così lontani da quelli che Gesù nel Vangelo ci ha mostrato, indicandoci come agire nei confronti di chi soffre.
Ci siamo chiesti tante volte, nel corso di questi anni, come mai fosse così difficile aprire le braccia, il cuore, la mente, alle persone che più delle altre hanno bisogno di essere “accolte” e “segnati” da un gesto che, senza parole, dica l’Amore che Dio riserva loro.
Ci siamo dati delle risposte, sbagliate, negative, avvilenti per chi agisce così e per chi riceve un atteggiamento così sbagliato: la persona che porta su di sé in modo evidente i segni della sofferenza, suscita in chi l’avvicina per la prima volta, un senso di rifiuto, di disagio, di paura, che si cerca di mascherare come meglio si può, creando a sua volta imbarazzo e disagio.
Non è facile reagire in modo diverso perché è più naturale nascondersi dietro un “Non ce la faccio”, “È più forte di me”, “Vorrei ma mi sento impotente”…
È vero, bisogna saper perdonare chi non è stato “allenato” all’incontro con la sofferenza ma altresì saper godere perché un Papa, alla soglia del suo magistero, abbia avuto l’opportunità di dire, in pochi minuti “Ecco, come si fa!” ora basta avere paura, ora basta esitare. Ora bisogna andar loro incontro con le braccia spalancate, stringerli al proprio cuore, vivere con loro, con ognuno di loro, un abbraccio di comunione. E così sia.
Mariangela Bertolini, 2013
Nata a Treviso nel 1933, insegnante e mamma di tre figli tra cui Maria Francesca, Chicca, con una grave disabilità.
È stata fra le promotrici di Fede e Luce in Italia. Ha fondato e diretto Ombre e Luci dal 1983 fino al 2014.
Tutti gli articoli di Mariangela
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.122