Inizio subito col dire, da mamma adottiva di Andrea, che riaccoglierei Andrea, e con me mio marito Antonio e il resto della truppa (gli altri quattro figli) non una ma dieci volte, e con grande convinzione. La storia del suo arrivo in famiglia l’ho già raccontata (n° 100 “Da quattro a cinque figli”); ora Andrea ha sette anni e ha iniziato la prima elementare: col sostegno, con un anno di ritardo, ma adesso era proprio pronto. Grande commozione di tutti alle prime pagine di A portate a casa da scuola: scritte tutte storte in caratteri giganti, ma pur sempre, chiaramente, delle bellissime A.
Perché complicarsi l’esistenza?
Quando abbiamo incontrato Andrea eravamo una normalissima famiglia di sei persone. I nostri figli stavano tutti benone e conoscevamo da vicino il mondo dell’handicap, ma come volontari-assistenti-educatori in attività all’interno dello scoutismo e dell’oratorio. Ci eravamo già posti il problema di un’adozione e, nell’eventualità, di un’adozione speciale, però non al punto di pensare che fosse proprio la nostra strada. Incontrare Andrea ha accelerato tutta una serie di riflessioni, ma il pensiero di entrare da diretti protagonisti nel mondo dell’handicap non è mai facile, specie se se ne è fuori, belli tranquilli.
Cosa spinge una famiglia a dire sì ad una adozione speciale? In effetti non lo so, perché non c’è una risposta unica. Un po’ come pretendere di avere un’unica risposta da tutte le coppie che decidono di mettere al mondo un figlio. Per noi, il fatto di essere cristiani e di essere scout ha avuto una grossa parte nella nostra scelta. Uno scout promette di servire dove e quando ce ne è bisogno. Un anziano sacerdote scout ci diceva sempre: “Quando ti chiedono di fare un servizio, se puoi, devi.”. Quindi il mettersi realmente a disposizione quando capita di capire che c’è bisogno di qualcosa, lo abbiamo assimilato sin da ragazzini.
La prima domanda, super-sensata, è “se puoi”. Quindi, valutazione velocissima della casa: dove metterlo a dormire, eliminazione barriere architettoniche in caso di future necessità e così via. Poi del tempo: un bambino disabile capovolge i ritmi normali, perché ha bisogno di mille terapie, visite, controlli. E quel tempo deve essere tolto agli adulti, non ai figli che già ci sono. Io non lavoro fuori casa, per cui potevo occuparmi di Andrea mentre gli altri erano a scuola o all’asilo, togliendo spazio più al mio tempo libero e agli impegni della casa che ai fratelli.
Abbiamo anche chiesto se Andrea avesse bisogno di lunghi periodi di ospedalizzazione: gli altri figli allora avevano tra i 5 e i 12 anni, e non potevamo prevedere lunghi periodi in ospedale senza stravolgere le loro vite. Dovevamo permettere agli altri di non vedere il nuovo arrivato come qualcuno che gli toglie qualcosa: è così sempre all’arrivo di un nuovo figlio, specie se handicappato, ma in un’adozione questo aspetto non può essere trascurato, perché, oggettivamente, i genitori non sono obbligati a prendersi cura di quel bambino in più. Che non tutto sia sempre semplice lo accettano, se però fai portare loro il peso della tua scelta, diventa troppo faticoso. Arrivati alla risposta: “Sì, posso”, si passa al “devo!”. E qui qualcosa scricchiola. Perché il “devo” non necessariamente coincide con “ho voglia”. Il “devo” aiuta a superare la naturale repulsione che tutti abbiamo alla fatica: “Sto bene, perché mi devo complicare l’esistenza?”.
Fondamentalmente per incoscienza cristiana e basta. Puoi anche dire a te stesso che non hai molta voglia, però nel Vangelo c’è scritto che se incontri qualcuno che ha bisogno di te, te ne devi occupare TU. In più, in un caso come un’adozione speciale, hai la scusante che nessuno ti condannerà mai per non esserti imbarcato in un’avventura del genere: saranno tutti assolutamente comprensivi. Resta il fatto che quella necessità l’hai incontrata tu e che, se ti sei reso responsabilmente conto che te ne potresti occupare, non puoi fare finta di niente. La tua voglia di tranquillità, può obiettivamente avere lo stesso peso e la stessa importanza di un bambino che ha bisogno di una famiglia? Per noi, in quella situazione, e nel nostro caso specifico, la risposta è stata “no”. ‘Chisseneimporta’ allora della fatica e del non avere più tempo libero, Andrea aveva bisogno e noi abbiamo scelto lui. Col senno di poi, scelta azzeccata: siamo tutti più felici di come non saremmo se Andrea non fosse arrivato. Con qualche ora di sonno in meno, una marea di chilometri fatti su e giù per le terapie, i molti impegni personali annullati, la pazienza di tutti i fratelli a vedere papà e mamma dividersi in cinque e non più in quattro però, che importa: Andrea è felice, e noi con lui.
Farsi prossimo ed evitare prediche
Abbiamo conosciuto un mondo, quello dell’handicap, da “dentro”. È un mondo stanco, afflitto da molti problemi, preoccupato per i propri figli, però è un mondo bello, dove si incontrano persone particolari, lavoratori motivati e saggi, genitori coraggiosi, speranze contro ogni speranza. Ricordo come, i primi tempi, guardassi intimorita gli altri bambini in sala di attesa prima delle terapie: cercavo di vedere negli altri come sarebbe stato Andrea da grande. Quando un bambino, a più di un anno, non sta ancora seduto da solo, qualche preoccupazione ce l’hai.
È naturale. Però non avevo più paura di chiedere alle altre mamme, di parlare dei loro bambini: istintivamente avevo rotto il pudore della paura di dar fastidio o di mettere a disagio con domande inutilmente curiose; eravamo nella stessa barca e potevamo parlare. Adesso è bello poter dire a giovani mamme di bimbi piccoli con patologie simili a quella di Andrea: “Non preoccuparti: vedi, Andrea ha imparato a camminare, a parlare, a giocare” e capire che questo fa loro un gran bene. Anche sapere che lo abbiamo adottato fa sgranare loro gli occhi, non per ammirazione, ma più semplicemente perché vedono in questo un gesto bello anche se indiretto nei confronti dei loro figli: intuiscono, alcuni per la prima volta, che non tutti vedono l’handicap solo come un problema. E anche questo fa loro molto bene. E anche a noi.
Dicevo tempo fa ad una riunione di genitori a scuola, in cui mi si interrogava sull’argomento, che per gli altri fratelli Andrea è fratello a tutti gli effetti. Non: lo sopportano, ma: gli vogliono bene. Andrea ha insegnato loro quello che noi avremmo voluto insegnargli, ma non saremmo mai riusciti a fare. So che l’arrivo di Andrea li ha resi ragazzi migliori, non degli altri, ma di come sarebbero stati se non avessero incontrato lui (è il discorso della felicità di prima). Il contatto con un bimbo così insegna tantissimo in termini di sensibilità, pazienza, accettazione, rispetto della vita, senso del dovere nei confronti delle necessità altrui, giustizia: tutto questo lo hanno imparato da lui, e senza un minuto di predica, cosa in cui invece noi appartenenti alla categoria genitori siamo inutilmente specializzati.
Inevitabili, quotidiane, difficoltà
I primi momenti sono i più entusiasmanti, ma anche i più difficili. Dopo la sbornia dei primissimi giorni con visite di amici e parenti, presentazione, racconti, regali, arriva il problema di organizzare le giornate con il nuovo arrivato, cosa vera con tutti i pacchi-cicogna in qualsiasi famiglia, con l’aggiunta del panico di chi non conosce ancora il proprio figlio ma ha già cercato di imparare a memoria la sua gigantesca cartella clinica. Per cui la domanda che più spesso ti poni è: “Sta male? Ma quanto sta male? Perché sicuramente c’è qualcosa che mi sfugge”. Poi ti abitui ai suoi ritmi, così diversi da quelli dei figli che hai avuto prima, e inizia il quotidiano. È a questo punto che, per me, è arrivato il momento più difficile.
Nonostante tutte le riflessioni, il desiderio di accogliere Andrea con le sue necessità, la coscienza che in casa nostra si stava compiendo qualcosa di veramente bello, rimaneva il fatto che quel bambino non era “perfetto” e come ogni mamma dovevo passare ancora la prova del “mi devi voler bene così come sono, sennò che bene è?!”. E l’istinto naturale dell’uomo è di non volere l’imperfezione per i propri figli. È proprio l’istinto: nonostante le più buone intenzioni da lì si deve passare. Secondo la mia esperienza è anche un passaggio molto salutare. “Ho la gambina che è rigida, la mano che non funziona, ma tu mi vuoi bene lo stesso?”.
Non è stato facile dire a me stessa che avevo difficoltà a dirgli subito, immediatamente, un sì, e che avrei preferito avere davanti un bambino “sano”, però superare questa difficoltà è stato bellissimo. È in quel momento che Andrea è diventato mio figlio. L’ho già detto prima, noi siamo credenti, e questo ha aiutato. Non parlo volentieri di questo aspetto, perché lo considero profondamente personale, però davanti ad Andrea ho imparato che quando si chiede a Dio di aiutarci a voler bene a una persona, Lui ascolta e ci esaudisce molto volentieri.
Una famiglia disabile
Un altro aspetto che bisogna imparare ad accettare è che con l’arrivo della disabilità in famiglia, tutta la famiglia diventa un po’ disabile. I tempi diventano più lenti, le preoccupazioni crescono, la possibilità di fare attività di vario genere diminuiscono, le probabilità di creare imbarazzo in mezzo agli altri aumentano. È un cambiamento che va accettato, con la consapevolezza che, certo, è una situazione che potevi anche non andare a cercare, ma che se è la conseguenza di qualcosa che ti rende felice, sicuramente quel qualcosa è più importante di tutto il resto. La cosa bella è che si impara una nuova scala delle priorità.
Poi ci sono i problemi pratici, con conseguente e frequente panico. A noi è stato molto utile che Andrea passasse, prima di approdare a casa nostra, qualche mese in una casa-famiglia. Lì è stato conosciuto, coccolato, svezzato e ha iniziato l’iter per definire la diagnosi. Tutto questo ha permesso a noi, così inesperti perché abituati ad uno standard di crescita e sviluppo “nella norma”, di avere davanti una strada da percorrere già impostata da persone capaci e di avere dei riferimenti più familiari che le figure professionali presenti in un reparto ospedaliero. In sostanza, nei primi due mesi non si sono contate le telefonate alla casa-famiglia: avevamo bisogno di un aiuto per vivere quel momento con serenità e lo abbiamo avuto. Se Andrea fosse arrivato direttamente dall’ospedale, sarebbe stato più difficile.
Scelte consapevoli
Alla luce di tutto quanto detto sino ad ora, l’esperienza dell’adozione di Andrea è assolutamente positiva e bella. Lo dicevo all’inizio: rifarei tutto senza la minima perplessità. Le difficoltà, la fatica e quant’altro, non sono nulla a confronto della gioia di sapere che Andrea ha una famiglia, come ogni bambino è giusto che abbia, e che questa famiglia siamo noi. Ma è ugualmente giusto che una famiglia che si affaccia all’adozione speciale, si renda conto della presenza di queste difficoltà. Se ha altri figli, mai buttare all’aria un equilibrio familiare per eccesso di generosità. Se puoi, devi, ma se non puoi, non devi.
E se invece non ci sono altri figli, la coppia dovrà essere certa, ma proprio certa, che non sta compiendo quel passo per riempire un “buco”. L’adozione di un bimbo con handicap, molto più che per un’adozione normale, non può essere fatta per una necessità della coppia, ma solo ed esclusivamente per andare incontro ad una difficoltà di un bambino, speciale tra l’altro. Una coppia con altri figli che stanno bene, oltre ad offrire compagnia e stimoli in più per il nuovo arrivato, è facilitata a vivere serenamente i limiti di quel nuovo bambino, perché il naturale desiderio di maternità e paternità dei genitori è già stato soddisfatto. Ma è lo stesso quando il bimbo disabile arriva in casa in modo naturale: se il primo figlio è disabile, è più difficile. È come se la delusione, così difficile da ammettere, faticasse di più ad essere tenuta sotto controllo.
Luisa Dinale, 2012
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.120