Iniziano così i nostri giorni all’Arca, una vacanza breve e singolarissima fatta di molti incontri, con Jean e con tante altre figure storiche dell’Arca di ieri e di oggi, con i ragazzi, con gli amici, con altri ospiti, con i giovani del servizio civile provenienti da tanti Paesi. C’è stato però anche spazio per momenti di silenzio. Un silenzio profondo, diverso: quel silenzio totale da rumori, notizie, internet e giornali che nel nostro quotidiano è così difficile da trovare e mantenere. Come è difficile, tornati qui, raccontare l’Arca di Trosly, perché è davvero un’impresa raccontare tutto ciò che si rivela capace di lasciarsi assorbire, di pizzicarci ricordandoci che si può scegliere di essere autenticamente persone umane.
L’Arche, Val Fleury, Les Rameaux, l’Ermitage, la Nacelle, la Vigne, la Forestière: sono solo alcuni dei nomi delle tante case (focolari) dell’Arca, sparse per il paesino di Trosly-Breuil, in Picardia. Durante i giorni in cui abbiamo dormito alla Ferme (la foresteria), siamo state invitate a pranzo e a cena sempre da un focolare diverso, scoprendo che in comune tra di loro i focolari non hanno assolutamente nulla. Ogni casa, infatti, ha la sua storia (L’Arche è quella più antica, dove Jean andò a vivere con Philippe e Raphaël nel 1964;
L’Ermitage, la più grande, era il vecchio manicomio del paese), ha i suoi più o meno numerosi componenti, i suoi volti, il suo stile, i suoi mobili (nessuno di scarto), i suoi menù (oltre alla capacità, incide la provenienza geografica e l’età dei “cuochi”). È stato esattamente come andare a mangiare ogni volta da una famiglia diversa del villaggio. Famiglie accomunate solo dall’amore che ne lega i membri, dal cammino fatto (e ancora da fare) insieme, dall’essere una comunità di vita.
Non lontano dalla casa nuova di Jean (si è trasferito solo da qualche settimana), si trovano i diversi laboratori dove quotidianamente si impegnano i ragazzi, eseguendo lavori in appalto o producendo artigianato in proprio. Non solo quelli che vivono stabilmente all’Arca: ogni giorno, infatti, affluiscono ai laboratori di Trosly anche tantissimi lavoratori che vivono altrove – e per loro è stata creata una mensa. I prodotti artigianali possono essere acquistati al negozio “d’artisanat d’art”, che ha degli oggetti (specie quelli in ceramica) da far veramente invidia alla boutique più esclusiva. Ovviamente, non tutti i ragazzi dell’Arca presentano disabilità compatibili con il lavoro: per costoro esistono strutture apposite, che quotidianamente li accolgono per le attività più diverse (dal cavallo alla piscina, dalla musicoterapia ai massaggi). Perché tutti, ma proprio tutti a prescindere dal tipo e grado di disabilità, ogni giorno feriale devono uscire dal loro focolare, per andare a trascorrere la giornata altrove.
Un posto unico è poi la Chiesa, vicino alla foresteria. Di pietra e legno chiaro, semplicissima. È una ex stalla, con una piccola vetrata decorata che proviene da Taizé (da una porta, vicino a quella che fu la mangiatoia, si accede al giardino in cui è sepolto padre Thomas). Alla messa feriale del giorno del nostro arrivo, i canti erano accompagnati da chitarra e violino.
I sorrisi, i colori dei focolari, la gioia, la pacatezza energica del giovane seminarista, l’accoglienza, l’energia contagiosa di Christine, il dolore anche, la merenda di Odile, l’insalata di Agnesca, la “scoperta” che a Roma (oltre al Papa) ci sono “valigie meravigliose”, la gentilezza di Ivò: eppure non è questo ciò che mi ha veramente colpita nei giorni passati a Trosly. Forse la pacatezza di Jean Vanier e le lunghe chiacchierate con lui? No, nemmeno questo. Allora sono stati l’amore, il senso dell’amicizia o della comunità?
No, quel che veramente mi ha colpita dell’Arca di Trosly, che mi ha dimostrato silenziosamente che-allora-è-possibile, quello che mi ha dato una speranza enorme sussurrandomi che il messaggio può essere un altro, è stata l’intelligenza. L’intelligenza del progetto di vita.
L’intelligenza che ha condito l’amore, l’amicizia e la comunità, rendendo l’Arca ciò che è.
Giulia Galeotti, 2012
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.118