Mi ha colpito il pre-giudizio, questa volta al contrario. Ho avuto la sensazione che sia scattato, nei confronti della scuola, il convincimento che “sicuramente” si tratti di un palese caso di voluta e cinica discriminazione. Io penso che la versione degli insegnanti sia invece banalmente vera. Si è trattato, secondo me, di un atto un po’ superficiale, non meditato. Penso infatti che sia impossibile, al giorno d’oggi, che un’alunna con sindrome di Down rappresenti un problema per la classe o per le famiglie.
Non ci credo, perché so benissimo quale carica di affettività, di simpatia, di allegria, un’alunna come quella bambina avrà portato, durante l’anno, a tutta la classe. Adesso la frittata è fatta, e quella bimba – ora sì – rischia di essere emarginata, trattata con ogni circospezione, perfino “burocratica”. E ora c’è la corsa, da parte di mamme fotogeniche, a esaltare la “bellezza” dei bimbi con sindrome di Down.
Non posso che condividere: i bambini con sindrome di Down sono belli e dolcissimi. E allora? Vogliamo forse sostenere che la disabilità è accettabile, e socialmente condivisibile, solo in presenza del canone di un particolare tipo di “bellezza”? La nostra società ha dunque talmente interiorizzato il valore dell’estetica da utilizzarlo, paradossalmente, anche quando vuole negarlo? La disabilità – non in questo caso – può comportare anche forte e sgradevole deformità. E allora? La vera sfida è riconoscere sempre e comunque “la persona”. La sua identità, la sua dignità. Altrimenti siamo tutti noi a discriminare, per davvero.
Franco Bomprezzi (da Vita, 14 ottobre 2011)
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.119