Leggera come farfalla è il titolo dell’ultimo libro della filosofa Michela Marzano (vedi la recensione). Si riferisce al peso piuma che l’autrice ha raggiunto quando si ammalò di anoressia o alla vera liberazione che ha conosciuto dopo la guarigione? Con l’articolo che segue ritorna sulla sua esperienza.
Pensavo che non ne avrei mai parlato. Era il mio segreto. E non avevo nessuna intenzione di permettere a chiunque di avere accesso alle mie fragilità e alle mie mancanze. Poi poco a poco mi è venuta voglia di raccontare la mia storia. Perché l’anoressia non è qualcosa di cui vergognarsi. Non è un’infamia, non è una malattia come le altre.
L’anoressia è un sintomo. È la punta di un iceberg di una sofferenza interiore. Un tentativo disperato di attirare l’attenzione; per essere riconosciuto e amato per quel che si è e non per quello che dobbiamo essere. Da questo punto di vista è anche l’espressione di una paura terribile di perdere l’amore degli altri. Proprio perché si ha paura, si fa di tutto per proteggersi da tutto. Anche se, a forza di proteggersi, si rischia di morire. E per imparare a vivere, bisogna avere il coraggio di dare un senso a questa sofferenza.
Malata di perfezione
Per quanto mi riguarda, è solo poco per volta che mi sono resa conto di questo sintomo. A vent’anni avevo solo la sensazione di dover mangiare sempre meno, perché mi sentivo colpevole appena mi lasciavo andare a soddisfare la fame. Ma la cosa sorprendente era la mia convinzione che tutti avevano lo stesso senso di colpa nei confronti del cibo. Solo parlando con un’amica e vedendo che lei non capiva nemmeno che cosa potesse essere questo senso di colpa, ho preso coscienza molto lentamente che in me c’era qualcosa che non andava.
A dispetto di ciò che significa il termine anoressia che letteralmente vuol dire “ senza fame”, un’anoressica ha sempre fame: una fame che aumenta man mano che si priva di cibo e che di fatto è una fame di tutto e non soltanto di cibo. Ha fame di amore, di riconoscenza, di gioia, ma ha talmente paura di non ottenere tutto ciò, che arriva a convincersi da sola di non avere bisogno di nulla e di nessuno. Così poco per volta, il mondo si attorciglia nel suo solo sintomo. Rimane solo tutta presa dal dovere di controllare il cibo.
Fu così che il giorno in cui sostenni la tesi di laurea pesavo solo 35 chili. Sono stata ricoverata in ospedale parecchie volte. Ma solo quando ho iniziato la psicanalisi ho potuto capire, poco per volta, che cosa si nascondeva dietro a quel sintomo ed ho potuto cominciare ad uscirne. Non ero in conflitto con la mia femminilità o in un rapporto malato con mia madre. Non cercavo di perseguire un’immagine di “bellezza” dovuto ai modelli della moda. Semplicemente avevo voluto, fin dalla più tenera età, essere esattamente come mio padre – ma anche i miei insegnanti e professori – voleva che io fossi: perfetta. Sono stata la prima della classe a scuola.
Ho ottenuto laurea e dottorato prima degli altri. Ho ottenuto prima il posto al CNRS, poi sono diventata Professore d’Università. Riuscivo in tutto avevo tutto. Tutto…tranne la gioia di vivere. Cosa ho dovuto sacrificare per essere sempre “perfetta”? Così perfetta che lungo la strada ho dimenticato ciò che volevo…peggio ancora: chi ero…
Una vera gioia di vivere
Ho impiegato vent’anni per uscire da questa corsa alla perfezione ed al riconoscimento sociale. Vent’anni per determinare il limite tra mio padre e me, il “dover essere” e l’“essere”.
Oggi sto bene perché mi sono liberata dall’anoressia. Questo non vuol dire che tutto va bene. Oggi sto “male”, ma male come chiunque altro. Perché la vita è difficile per tutti. Ciò che non esiste più per me è quella sofferenza eccessiva che un tempo mi impediva di vivere.
Per uscire dall’anoressia non ci sono ricette magiche. Come alcuni pretendono. Come altri sperano. Ma esiste qualcosa molto più prezioso di semplici ricette: la forza delle parole. Quelle che permettono di dire mille e mille volte le stesse cose, gli stessi istanti, le stesse incertezze, gli stessi dispiaceri… Quelle che a volte spariscono e delle quali a volte si ha bisogno per vivere. Quelle che si possono cercare per anni interi e che un giorno riappaiono per nominare l’innominabile.
Le parole servono per ritrovare il filo perduto. Quei momenti di paura e di violenza che mi hanno costruita. Quegli spazi di non riconoscenza e di abbandono. Quei “no” a tutto ciò che non era stato previsto in anticipo, deciso da mio padre, calcolato per il mio “bene”. Quegli anni durante i quali qualcosa si è rotto per sempre. La gioia di vivere. La libertà. La voglia… semplicemente la voglia di fare qualsiasi cosa…
A lungo ho creduto di poter dimenticare tutto “come se” nulla fosse mai successo. Come se bastasse nascondermi dietro argomenti razionali per dare un senso alla mia esistenza. Come se l’importante fosse la coerenza e il rigore degli argomenti. A lungo ho creduto che la filosofia fosse questa: spiegare il mondo per controllarlo meglio. Solo inseguito ho scoperto che le teorie astratte, spesso sono ridicole. Talora pregiudizi inutili e sterili. Talora chiacchiere saccenti. E che la sola cosa alla quale valga la pena di restare fedeli è la ricerca del senso della nostra vita che non finisce mai di sfuggirci: la vulnerabilità della condizione umana.
Se non avessi vissuto tutto ciò che ho vissuto e che racconto in Leggera come una farfalla non sarei probabilmente divenuta quella che sono. Forse non avrei capito che la filosofia è soprattutto un modo di raccontare la limitatezza e la gioia. Gli ossimori e le contraddizioni. L’immenso coraggio che serve per smettere di soffrire e la fragilità dell’amore che dà senso all’esistenza
Michela Marzano, 2012
da O&L n. 185
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.120