In questi ultimi anni abbiamo iniziato a conoscere e ad avere familiarità con la malattia di Alzheimer, demenza degenerativa che distrugge progressivamente le cellule cerebrali, facendo regredire chi ne è affetto rendendolo a poco a poco incapace di una vita normale.
Se inizialmente questa malattia dura e spietata (anche a causa della prognosi infausta, dell’assenza di una terapia che ne modifichi il decorso e del grande impatto in termini emotivi ed organizzativi), ha suscitato solo terrore e volontà di non parlarne, recentemente si registra un atteggiamento più maturo e coraggioso. Non solo è venuto meno l’inutile ostracismo verso il fatto di nominare questa malattia, ma “addirittura” si è iniziato a cercare di comprenderla nel tentativo di trovare una chiave per relazionarsi con chi ne è colpito. E la fortunata coincidenza dell’uscita di due opere, un romanzo e un film, ne sono la conferma: ognuno con il suo stile e la sua ottica, sia il libro che la pellicola cercano di trovare un modo per “entrare” nella malattia, imparando a conviverci e a dialogarci con tutta la serenità possibile.
Se del romanzo “Perdersi” ne abbiamo già parlato, anche l’ultimo film di Pupi Avati, “La sconfinata giovinezza”, fa riflettere, aiutando a comprendere cosa può provare un malato di Alzheimer. E facendoci toccare con mano quanto probabilmente abbiamo sbagliato e sbagliamo nei nostri tentativi di relazionarci con questa malattia. Una chiave per capire che, se non c’è la ricetta giusta sempre e comunque, v’è comunque una direzione che è possibile prendere.
Nel film un magistrale Fabrizio Bentivoglio (Lino) è un giornalista sportivo gradatamente colpito dalla malattia, mentre Francesca Neri (Chicca) ne interpreta la moglie, una-donna, caparbia nel cercare di mantenere una comunicazione con l’uomo che ama da anni. Nulla è facile, sia chiaro: dall’ottica di lei, partecipiamo al dolore di vedere la persona perdere progressivamente pezzi di sé (a volte consapevolmente, a tratti con manifestazioni violente, spesso divenendo incomprensibile a chi gli è vicino). Ma la scena di Lino e Chicca che giocano sulla pista disegnata sul pavimento della loro ricca casa borghese, è memorabile nella poesia e nella forza che trasmette. Lui, ceramente appassionato e lanciato nell’immaginare una tappa del Giro lei ride e si diverte, seppur lucida e consapevole, forte dell’essere riuscita a trovare un passaggio nella mente dell’uomo.
Perché pur perdendosi, pur divenendo passo dopo passo meno presente a se stesso e a chi lo circonda, pur rendendo il passato, annullando margini temporali in una memoria selettiva e inspiegabile, il malato di Alzheimer è comunque una persona, è comunque quella persona.
Giulia Galeotti, 2011
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.113