Si dice che i giovani sono restii ad impegnarsi, sono veramente così tiepidi?
I giovani di oggi mi appaiono generosi così come i loro genitori, ma provano una maggiore difficoltà ad impegnarsi in una istituzione.
Non si vogliono mobilitare per la causa degli stranieri immigrati, ma se c’è nella loro classe una ragazza che rischia di essere espulsa, si mobilitano subito al fianco della loro compagna. Ugualmente ci sono degli scouts pronti a dedicare tempo, energie e danaro per andare a costruire un pozzo in un villaggio africano, ma sono meno pronti a mobilitarsi per una campagna del CCFD (Comitato cattolico contro la fame e per lo sviluppo). È in ciò che si vede il cambiamento. Se non vedono i risultati delle loro decisioni, i giovani tendono a ripiegarsi su se stessi e ad agire in maniera individualista. Ma quando si confrontano direttamente con la sofferenza, li vedo capaci di mobilitarsi come i loro genitori.
Ciò che si è modificato è il rapporto con il tempo, centrato sull’immediatezza. lo lo vedo come una conseguenza di una perdita di fiducia, di una difficoltà a proiettarsi nel futuro. Quando i discorsi degli adulti si riassumono in: “Ieri era bello, oggi è difficile, domani sarà una catastrofe”, non mi stupisco certo che i giovani facciano fatica a concepire le cose a lungo termine. Il cambiamento è in rapporto al tempo vissuto nel registro del tutto e subito.
Quali sono le difficoltà ad impegnarsi?
I giovani fanno difficoltà a fare una scelta. Non una scelta tra un si e no, ma tra un si e mille no. Impegnandosi pensano di perdere un po’ della loro libertà. Se scelgono di impegnarsi in una certa associazione, vuol dire dover rinunciare ad altre opportunità che possono presentarsi. Dire di si ad una ragazza, vuol dire fare una croce sopra a tutte le altre.
Provo questa difficoltà, nel mio lavoro di educatore, quando intendo lanciare un progetto per l’estate: non funziona mai subito. Bisogna sviluppare una pedagogia del progetto in cui il tempo dedicato a tale progetto va aumentando gradatamente. Per esempio, cominciare con un primo week-end. E una volta realizzato questo, ci si potrà eventualmente impegnare per un breve periodo di vacanza. E quando avranno acquistato fiducia constatando dei buoni risultati, sarà possibile riflettere su un progetto per l’ estate. Bisogna aiutarli a prendere coscienza della gioia di aver mantenuto il loro impegno. Tutto ciò deve avvenire progressivamente.
Lei si occupa da trent’anni a questa parte di giovani di periferia. Come le persone disabili anche’essi subiscono lo sguardo degli altri
Durante l’adolescenza, un giovane prende coscienza dello scarto esistente tra l’immagine che egli vorrebbe dare agli altri di sé e quella che gli altri gli rimandano. Il grande rischio è il ripiegarsi su se stessi o sul proprio piccolo gruppo di “simili”. Quando si parla con una persona disabile, la più grande causa di sofferenza non è tanto l’handicap, quanto lo sguardo dell’altro che lo rinchiude nei suoi limiti. Lo stesso avviene per i giovani che sono considerati in base alle loro origini etniche o culturali. Un giovane, ad esempio, non è solamente un Magrebino. Questo termine può dire qualcosa sulla sua identità, ma niente dei suoi talenti, dei suoi doni, delle sue capacità.
Prendere coscienza della sofferenza che causa lo sguardo degli altri su di me, può modificare il mio sguardo sugli altri. È sempre una grande ricchezza accogliere in un gruppo di giovani uno o due ragazzi disabili e scoprire la ricchezza della persona aldilà del suo handicap.
Come favorire questo incontro con le persone handicappate?
Un incontro è sempre positivo se è sostenuto, se si offre ai giovani la possibilità di conoscersi, di scoprire per esempio che il ragazzo con handicap motorio cerebrale, può avere un’acuta intelligenza anche se ha difficoltà ad esprimersi verbalmente, che le persone fortemente handicappate, nella loro sedia a rotelle possono fare delle pertinenti riflessioni sul mondo, che il bambino Down ha delle doti incalcolabili nel manifestare la sua tenerezza, nella sua gioia di vivere, che può competere con coloro che si credono normali perché validi.
Non bisogna avere paura di confrontarsi con la differenza perché questa è fonte di arricchimento, ma a condizione di essere capaci di riconoscere una identità comune. Occorre passare del tempo insieme per imparare a conoscersi.
Intervista di Guillaume Desanges
(Ombre et Lumiére n. 179)
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.114