Sono pagine tutte variamente pervase da un nodo i di fondo, quello cioè della difficile conciliazione tra tradizione (in termini sia = ss. di valori, che di pregiudizi e stereotipi) e modernità (con il suo noto binomio Ed. Guanda di libertà e perdita di senso). Quasi a ricordarci che, mentre si guadagna e si migliora, inevitabilmente si perde qualcosa.
Sebbene indagata senza sbavature e con competenza, la vera protagonista del romanzo non è però Mira, ottima acrobata tra un equilibrio familiare sull’orlo del collasso e una vita non solo affettiva ma sociale, economica e lavorativa da reinventare. Il vero protagonista, l’eroe verrebbe da dire, del romanzo è il professore dei cicloni: Jack.
Abbandonato da piccolo dal padre e divenuto adulto con il grande desiderio, quasi l’ossessione, di essere diverso da chi l’ha messo al mondo, quando si ritrova padre a sua volta, Jack si avvia a ricalcare — con tutte le novità del caso, legate principalmente al diverso momento storico e geografico — le tante aborrite ombre paterne.
E così L’arte di dimenticare diventa la capacità di quest’uomo di scoprirsi finalmente il padre che avrebbe voluto essere. Perché Jack, per amore, rimane fermo dinnanzi a ciò che un genitore non vorrebbe (e non dovrebbe) mai ascoltare. Soprattutto Jack è il padre che non smette mai di vedere in quel “mostro” immobile sua figlia.
La sua Smirti. Perché, sia pure con fatica e a volte in modo maldestro, essere padre è prendersi cura. Come solo le madri sanno fare.
C.T., 2011
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.113