Così, come neonati, (ma molto meno facilmente accudibili e meno gradevoli agli occhi altrui) siamo affidati a persone che fino a quel momento non conoscevamo, che per professione, più raramente per vocazione, prendono in custodia i nostri corpi, la nostra sofferenza, la nostra sensibilità, il nostro disagio. Allora sulla nostra pelle sperimentiamo quanto male o quanto bene possono farci infermiere e infermieri, caposala e assistenti, e quanto la nostra sofferenza, il nostro disagio possano essere alleviati o cento volte aggravati dal loro modo di assisterci. Ma capiamo anche come è difficile il loro lavoro, quanta delicatezza e sensibilità è loro richiesta, quanta pazienza e quanta tenacia sono indispensabili per essere sempre all’altezza di un compito che anche i figli più devoti o i genitori più affezionati spesso non sono in grado di svolgere. E ci rendiamo conto, se riusciamo ad interessarci alla loro vita, di quanto sono lunghi i turni di lavoro e quanto modesti i loro stipendi.
Sì, è vero, si tratta di un lavoro che hanno scelto, di conseguenza devono svolgerlo con la cura e la sensibilità indispensabili, preservando la dignità della persona che è nelle loro mani e, insieme, quella della loro professionalità. Eppure la vecchia Pennablu non può non pensare anche ad un altro aspetto del problema. In un paese dove calciatori, sarti e presentatori, banchieri e amministratori sono pagati con cifre inverosimili, dovrebbe essere più riconosciuto e meglio compensato anche il lavoro di chi ci tiene tra le mani quando siamo più indifesi e bisognosi come mai di accoglienza e cura.
Pennablù, 2011
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.115