Parlare di sé è sempre molto complicato specialmente se si devono trasmettere emozioni, affetti e sentimenti personalissimi che mi hanno portato a scelte non esattamente “normali”.
Mi chiamo Lena (Maddalena) Antonioli, sono nata nel 1938, sposata con Giuseppe Botta, nato nel 1937, abitiamo a Milano ed abbiamo due figli, un maschio e una femmina, anche loro sposati che ci hanno regalato tre splendidi nipoti.
Nel lontano 1980 abbiamo conosciuto “Fede e Luce” e quindi Jean Vanier che ci hanno aperto un mondo di meravigliosa diversità. Nel 1984 in montagna, dove normalmente passavamo le nostre vacanze estive, incontro un giovane fratello (dell’ordine della Sacra Famiglia), del Burkina Faso, in Italia per studiare teologia. Aveva molta nostalgia della sua terra ma soprattutto della sua mamma e con sorpresa mi chiese se mi poteva chiamare mamma; risposi subito di sì, non sapendo quale importanza danno loro a questo termine. Rimaniamo sempre in contatto fino al 1989, quando all’improvviso scopro di essere affetta da una grave forma di glaucoma. Potevo rimanere cieca da un momento all’altro. Vengo operata urgentemente, ma a quel punto chiedo alla mia famiglia di poter visitare la patria del “figlio” lontano prima dell’eventualità di perdere completamente la vista che, grazie a Dio, mi è stata risparmiata.
La famiglia accetta la mia richiesta e con i fratelli della Sacra Famiglia di Chieri (Torino) parto per il campo di lavoro e amicizia che sempre viene programmato a cavallo delle feste di Natale e Capodanno. Arrivare in Burkina, nella povertà più assoluta, direi quasi nel nulla, con pochissima acqua a disposizione e senza luce elettrica è stato per me, stranamente, come arrivare a casa. Questa esperienza la ripeto per alcuni anni nella speranza di potere un giorno con dividerla con mio marito, perché con i miei figli già l’avevo condivisa.
Nel dicembre del 1997 riesco a partire con mio marito unitamente al gruppo del campisti, ma mentre per loro il periodo rimaneva di circa 20 giorni, noi avevamo un biglietto aperto per un soggiorno di circa tre mesi. Anche per mio marito è stata un’esperienza più che positiva tanto che l’anno successivo rimaniamo in Burkina per tredici mesi. Poi si ritorna tutti gli anni e diventa sistematico fare sei mesi in Italia e sei mesi in Africa, tutto questo con il consenso dei miei figli.
Il Burkina Faso è uno dei paesi più poveri dell’Africa. L’ONU lo classifica non del terzo mondo, ma del quinto mondo. Si trova nella fascia di Sahel, non ha risorse minerarie, il suo terrreno è di difficile coltivazione, è lontano dal mare, soffre di lunghi periodi di siccità, ma proprio perché non è appetibile per le grandi multinazionali si vive in tranquillità. La gente è particolarmente accogliente, e noi siamo stati adottati come “nonni” (vaaba in lingua locale) del villaggio. Viviamo all’interno della Missione dei Fratelli della Sacra Famiglia dove ormai da alcuni anni vivono solo Fratelli locali che sono sempre comunque collegati con i Fratelli italiani. All’interno della missione esistono una scuola primaria e l’unico liceo agrario del Burkina che sono sostenuti dall’Italia con le adozioni a distanza.
La lingua locale è impossibile da imparare e la lingua ufficiale, che viene parlata solo da chi può andare a scuola è il francese: peccato che l’80% della popolazione adulta è analfabeta. Noi riusciamo comunque a comunicare con i locali anche aiutati dai nostri frati. Nel villaggio oltre alla nostra Missione esistono altre realtà come le Suore Apostole del Sacro Cuore con il loro asilo per i piccoli, ma soprattutto con la scuola di cucito, ricamo e alfabetizzazione per l’inserimento lavorativo delle ragazze ed i Camilliani con un Ospedale bellissimo, nonostante sia lontano dalle città ed in piena savana.
Abbiamo una nostra casetta all’interno della Missione ma collaboriamo con tutte le realtà presenti nel villaggio. Mio marito si occupa prevalentemente di manutenzione generica ed io mi divido fra lavori sartoriali, produzione di marmellate e conserve di pomodori (per loro sconosciute prima anche per l’assoluta mancanza di contenitori, tappi, ecc.) e soprattutto l’insegnamento nella scuola primaria, in collaborazione con i maestri, dell’utilizzo e conoscenza dei colori, delle forme geometriche, dei fiori e dei frutti.
Nella loro lingua madre esistono solo cinque colori e come forma solo il tondo perché le loro capanne, i granai, ecc. sono tondi. Per fare ciò mi devo portare tutto da casa. I bambini non hanno matite colorate, fogli, gomme, temperamatite ecc. A seconda della densità della classe (da 50 a 60 bambini per classe) devo prepararmi 50/60 sacchetti dei colori che servono per il disegno scelto, più gomme e temperamatite. Noi siamo autonomi nella cucina e cerchiamo di mangiare il più possibile all’italiana ma per questo dobbiamo andare a fare la spesa in capitale a circa 100 km dal vi laggio (circa 2/2,30 ore di macchina se tutto va bene perché poche sono le strade asfaltate) e nei negozi degli europei per una minima sicurezza alimentare.
Il loro cibo base è il miglio, i fagioli ed il riso tailandese accompagnato da salse ricavate da foglie di alberi o da tutto ciò che non avvelena. Se va bene mangiano una volta al giorno«l bambini che possono andare a scuola sono fortunati perché i missionari hanno dato la possibilità a tutte le scuole, anche quelle statali, di fare almeno il pranzo di mezzogiorno.
Le lezioni iniziano alle 7,20 del mattino con l’alzabandiera ed il canto dell’inno nazionale e terminano alle 17, 17,30 e per molti dei bimbi che percorrono circa 4 o 5 km al giorno la ciotola di riso del mezzogiorno è un toccasana. Per alcune donne e bambini sono un punto di riferimento sia per le richieste di contimuazione deglixstudi*che per i momenti di malattia.
Con le offerte che amici mi consegnano io riesco a pagare la scuola, il cibo e le medicine o gli interventi in ospedale. Il buon rapporto con i Camilliani, le suore ed i fratelli mi aiutano a gestire bene queste richieste. La malnutrizione, la meningite, la malaria e l’anemia portano ad avere molte persone handicappate ed attraverso le suore ne sto aiutando molte.
Questo è un piccolo spaccato della mia quotidianità africana; quando sono con loro, pur mancandomi tutto, pur soffrendo molto il grande caldo (40° di giorno e di notte), non sento la nostalgia dell’Italia. Quando penso con nostalgia ai miei nipoti e guardo quei bimbi malnutriti, nudi ma sorridenti mi passa la sofferenza della lontananza.
Al 19 ottobre p.v. partiamo per altri sei mesi. Ci hanno già informato che troveremo molto lavoro da fare e questo ci aiuterà a sentirci vivi ed attivi.
Lena Botta, 2010
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.112