Non sarà per tutti così certamente, ma i testi che abbiamo ricevuto da sorelle e fratelli di persone disabili ci hanno lasciati piacevolmente sorpresi. Ecco alcune delle domande ricorrenti su questo tema:
- Perché devo essere sempre migliore?
- Dicono sempre che siamo tutti uguali… ma io mi vergogno di uscire con lui… e mi vergogno di vergognarmi
- Perché devo portare con me mia sorella h alle feste dei miei amici?
- Oh, come vorrei una vacanza senza di lei! »
- Quando i miei genitori moriranno, doVai oa da ite parmi di lui?
- Ogni volta che accenno all’idea di andare a vivere da solo scateno una tempesta nei miei genitori che mi ripetono: ma non pensi a tuo fratello?
A seguire alcune delle testimonianze che abbiamo raccolto.
Insieme, anche con grandi risate
Sofia, 17 anni sorella maggiore di Gianluca
La nostra famiglia è sempre stata particolare a prima vista: ci presentiamo infatti come un rumoroso ed eterogeneo branco di persone seguite, a distanza di sicurezza, da un grosso pastore tedesco e guidate da un prode e valoroso condottiero. Costui ha per missione nella vita di urlare e ridere per il bene del mondo ed il suo nome è Gianluca. Gianluca, o Uaua come preferisce essere chiamato, è mio fratello più piccolo e soffre di un handicap che caratterizza la sua e la nostra vita. Il nostro rapporto è sempre stato fantastico anche se più protettivo che puramente fraterno. Con lui rido e scherzo, certo, ma spesso litighiamo oppure ci consoliamo a vicenda…. anche se devo ammettere che la nostra occupazione preferita consiste nel fare gare di rutti; e poichè l’unione fa la forza, insieme riusciamo perfino a battere l’imbattibile Shrek!
Dalla mia parte
Francesca, 10 anni, sua sorella minore
“È bellissimo avere un fratello come Gianluca!” Mi dice Francesca di suo fratello disabile che ha quattro anni più di lei.” ..è l’unico che mi lascia guardare la televisione in pace anche se è un po’ rompiscatole perché è tutto perfettino e vuole sempre che la mamma tenga il telecomando. È gentile perché quando la mamma mi sgrida fa i capricci per difendermi. Ogni tanto mi fa anche fare bella figura perché sa fare i rutti che piacciono molto ai miei amici.
Ci ha insegnato molte cose, soprattutto a rispettare le persone che sono diverse e se non fosse stato per lui non avrei mai accettato che Livia (una ragazzina Down) fosse mia amica e quando è stato preso in giro ad una festa mi sono messa a piangere perché non l’hanno rispettato.
In un certo senso so che lui è mio fratello maggiore, ma mi sento più grande perché lui non può fare tutte le cose che faccio io”.
(a cura di Valeria Mastroiacovo)
La diversità più la allontaniamo e più ci fa paura
Francesca, 36 anni, sorella di Giulia
Tutto è cominciato 24 anni fa, quando mio fratello ed io, con trepidazione e curiosità, aspettavamo la nascita di nostra sorella. Mio padre da subito ci disse che la sorellina aveva un cromosoma in più e ci spiegò con semplicità e correttezza cosa stava accadendo.
Devo dire che mio padre è molto bravo nello spiegare le cose ai bambini e riesce a trovare un modo tutto suo di semplificare anche le cose più complesse!
Averlo saputo subito è stata una cosa importante per noi perché ci ha permesso di affrontare la realtà, ci ha aiutato a stare vicini ai nostri genitori e ci ha permesso di partecipare e sostenere, per quanto possibile, il loro normale iniziale disorientamento.
Ricordo con emozione le prime conquiste di mia sorella, i piccoli grandi passi che per lei avevano un’eco ancora più grande… “Segue con gli occhi la pallina, si rotola, si alza in piedi, accenna qualche passetto.. ecc.” Ancora oggi, ridendo, a volte ricordiamo come Giulia da piccola diceva i nostri nomi, e alla domanda: “Qual è la tua famiglia?” rispondeva: “Papà (sempre per primo!) Mamnmà (con classico accento napoletano..) Jejè (mio fratello Gigi), Checcà (che sarei io ) e Lillillà (lei, Giulia, pronunciato sempre con maggiore enfasi!!).
Ripensando a questi 24 anni si susseguono molti ricordi.
Per me Giulia è stata una sorella più piccola davvero speciale.
Tra noi due ci sono quasi 12 anni e fin da piccola la portavo in giro con le mie amiche, un po’ come la mascotte del gruppo. Lei è sempre stata legata ai miei amici e quando potevo ha condiviso feste e ricorrenze; ovviamente non sempre, anche io reclamavo spazi autonomi senza “i fratelli”, come tutte le ragazze!!
Il tempo è passato e oggi Giulia è cresciuta, è una ragazza adulta, ha i suoi interessi e ha costruito, con fatica e impegno, un suo gruppo di amici. Dopo la scuola superiore, infatti, c’è stato un momento in cui per lei erano finiti i vecchi riferimenti, la scuola, i compagni e gli insegnanti, e sembrava difficile ritrovare uno spazio di socialità al di fuori della famiglia e di noi fratelli in cui poter stringere legami e relazioni di amicizia. Per fortuna lentamente si sono affacciate nella sua vita diverse opportunità: dapprima un gruppo di ragazzi della parrocchia, che l’hanno accolta e inserita a pieno titolo nei loro giri “di pizze”, “feste” e momenti di incontro tra ragazzi. Poi mia sorella si è iscritta ad un Corso di formazione per clownterapist, che ha rappresentato non solo l’occasione di fare un’esperienza formativa molto coinvolgente, ma le ha dato anche la possibilità di inserirsi in un’associazione di clown che ancora oggi è attiva nel territorio di Napoli, partecipando alle riunioni, ai seminari di aggiornamento e affiancando i clown nei loro interventi con i bambini dell’ospedale. Un posto importante nella vita di Giulia lo ha avuto però l’Associazione Italiana Persone Down di Roma che, attraverso le attività del Club dei ragazzi e dell’Agenzia del Tempo libero, le ha permesso di far parte di un gruppo di ragazzi down con i quali condividere la propria esperienza, intrattenere vere amicizie, partecipare attivamente a vacanze e week-end insieme, confrontandosi in modo sereno con le sue e con le altrui diversità. Oggi Giulia viene una volta a settimana a Roma per incontrare gli amici dell’AIPD, manda loro delle e-mail, li ha invitati varie volte a Napoli e non si perde nemmeno una vacanza con loro. lo conoscevo l’associazione perché avevo collaborato con loro a vari progetti e riconosco di avere avuto un ruolo decisivo nell’avvicinare mia sorella e i miei genitori all’associazione e coinvolgerli nelle loro attività. A volte infatti il mio ruolo come sorella è stato anche quello di spingere la mia famiglia e Giulia verso occasioni di vita di cui venivo a conoscenza e che pensavo potessero essere utili per lei.
Mia sorella è per me un riferimento grande, mi ha insegnato “sul campo” che la preziosità della nostra vita sta nelle piccole cose e nelle conquiste quotidiane e soprattutto che le diversità più le allontaniamo da noi e più ci fanno paura. Spero di riuscire a tenere sempre nella mente questi insegnamenti e a passarli con amore alle mie figlie. Grazie Giulia. Francesca Sauro
Così divenni grande… per forza
A., 61 anni, sorella di R.
Ho 61 anni, sono sposata da 40 anni, ho tre figli maschi e mio marito, Franco, ci ha lasciati nel 2001 per un tumore.
Sono rimasta sola con i ragazzi che allora avevano 20, 24 e 28 anni. Inutile dire che rimanere senza l’appoggio di Franco mi ha stravolta: non sapevo a chi rivolgermi per i tanti problemi che i ragazzi mi ponevano giorno dopo giorno…
Accanto a me, in un appartamento comunicante, vivono mia madre in età avanzata e mia sorella maggiore che soffre di schizofrenia dall’età di 20 anni.
Sono rimasta sola, con cinque persone da proteggere, da seguire, da “servire”, da consolare, da stimolare…
Come si fa a vivere serenamente quando il compito che ci è davanti, che non abbiamo cercato, è obiettivamente troppo duro e pesante?
Mi sono fatta le ossa fin da quando ero ragazzina di 15 anni e la mia unica sorella ha cominciato a star male… Erano tempi in cui la malattia mentale non si curava se non con ricoveri e terapie d’urto tipo l’elettroshock. I miei genitori reagirono come meglio potevano, ma furono sopraffatti dai tabù dell’epoca: era una malattia di cui ci si vergognava e in più non c’erano posti dignitosi cui affidare la propria figlia.
Da subito — era mia sorella — mi sono sentita spontaneamente di prendere, dove potevo, il loro posto. Ricordo un dottore di una clinica dove era stata ricoverata, che vedendomi arrivare da sola per chiedere notizie, (avevo 17 anni!) mi disse: “Ma cosa ci fai qui? Non posso riferire a tel”.
Così divenni “grande” e matura e per fortuna arrivò nella mia vita Franco, il mio amato “salvatore” oltre che mio adorato sposo e amato papà dei miei figli.
Con lui accanto, tutto diventò più facile: anche i momenti più difficili e ostici, li vivevo più serenamente. Franco sembrava davvero inviato dall’Alto per asciugare le nostre lacrime, ma soprattutto per rasserenare la tempesta dalla quale ci sembrava di non poter uscire. Con lui accanto, è cominciata un’altra vita: i bambini — come fanno sempre — hanno portato il chiasso e l’allegria; il lavoro e le soddisfazioni. Insieme, felici del nostro matrimonio, appoggiato da subito alla fede in Dio paterno e provvidente, abbiamo potuto “dare una mano” alla malattia di mia sorella che, attorniata da questo clima gioioso, si è lasciata accompagnare verso un miglioramento dovuto certamente anche ai nuovi farmaci.
Poi Franco è stato male. È stato subito cosciente della gravità del suo stato e ha voluto fino alla fine partecipare con noi la sua preparazione alla morte. A me sembrava di ricadere nel baratro e ascoltavo i suoi sereni propositi con un po’ di scetticismo. Mi fidavo di lui e provavo a credere anch’io le “cose” belle che lui raccontava e che sono state il suo testamento. Ci ha lasciati è vero, ma non siamo rimasti soli: lui ci accompagna ancora oggi e ci aiuta a vivere nonostante tutto, con la speranza e la fiducia in Dio che sono state il fondamento della sua vita.
A. L.
Senza saperlo, mi ha quidata al cuore del vangelo
Suor Chiara, 49 anni, sorella di Maria
Nella nostra casa la mamma è stata sempre il cuore della famiglia. Ad un certo punto della sua vita ha deciso di lasciare l’insegnamento della pedagogia, che amava molto, per dedicarsi a noi e, tra le mille faccende casalinghe, assieme al papà, con uno sguardo attento e un grande amore, seguiva ciascuna di noi nella crescita e nei progressi. Sono l’ultima di cinque sorelle (la prima è morta a pochi mesi dalla nascita come succedeva spesso un tempo) e sono nata tre anni dopo Maria, mia sorella disabile. A dire il vero non mi sono mai abituata a definirla così, ho sempre fatto fatica a collocare Maria in questa categoria di persone, perché, dentro di me, l’ho sempre sentita sul confine tra la normalità e il mondo dell’handicap, forse perché non mi sono mai rassegnata alla sua disabilità o, forse, anche perché trovo in lei un cuore grande e un coraggio che io non ho.
Da piccola ricordo che le sue malformazioni destavano in me degli interrogativi cui non sapevo rispondere: perché è così? perché è diversa dagli altri bambini? perché è nella nostra famiglia? Più tardi questa domanda è diventata: perché lei è così e non io?
Solo pochi anni fa i miei genitori mi hanno raccontato il momento della sua nascita e come il papà avesse proposto alla mamma di chiamarla Maria per affidarla alla Vergine e poterla accogliere nella nostra famiglia senza riserve.
Non ho vissuto i primissimi anni di vita di Maria, essendo nata dopo di lei; credo siano stati i più difficili per i miei genitori. I medici avevano previsto una settimana di vita per Maria che era una bimba affetta da macrocefalia e sindattilia agli arti superiori e inferiori. In quegli anni così sofferti, in cui hanno camminato nel fitto buio di una grande prova, che ha richiesto loro una capacità più grande di fede e di amore, di intelligenza e di coraggio, hanno avuto delle risposte impensate — il Cottolengo direbbe: “A chi straordinariamente confida, Dio straordinariamente provvede” — e sono cresciuti in quella sapienza della vita che poi non hanno smesso di trasmetterci giorno dopo giorno.
La vita di Maria è stata quasi piena come la nostra: dopo i primi anni in una scuola speciale — abitare in una grande città come Milano ha in parte facilitato le cose, offrendo la città delle possibilità in più per i portatori di handicap, anche se allora non erano ancora giunto il tempo del loro inserimento nelle scuole pubbliche normali — per noi sorelle era logico che frequentasse gli scout come noi, era nato in quegli anni il gruppo Malgré-Tout che accoglieva anche i disabili; che si desse da fare per inserirsi nel mondo del lavoro come tutti, dopo aver fatto un corso di ceramica serale che le era stato consigliato perché le era congeniale; che cominciasse ad avere il suo piccolo giro di amicizie, poi, quando è venuto il momento di Fede e Luce, il giro di amicizie è molto cresciuto. Ma tutta questa normalità è stata possibile grazie ai miei genitori, che, nonostante tutto, hanno continuato a fare scelte che favorissero la sua autonomia. Oggi Maria vive con la mamma che è anziana (il papà è morto 2 anni fa all’età di 95 anni), lavora e, in parrocchia, è un membro vivo della comunità, fa parte del Consiglio pastorale.
Penso che la presenza di Maria nella mia vita sia una grazia di cui non sono ancora pienamente consapevole. Lei, senza saperlo, mi ha guidato al cuore del Vangelo: “Qualunque cosa avete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (cfr. Mt 25,40), e mi invita a non dimenticarmi dei più piccoli, a mettermi e rimanere dalla loro parte, perché il regno dei cieli è loro.
Quando 26 anni fa sono entrata in monastero, lasciandomi alle spalle gli inizi della professione di psicologa e la possibilità di fare qualcosa per gli altri, avevo compreso che il Signore Gesù mi chiamava a seguirlo per questa via attraverso la quale avrei potuto raggiungere non solo qualcuno, ma tutti. Papà mi aveva donato un immaginetta su cui aveva scritto: “Ti siamo vicini nel ringraziare il Signore e ti auguriamo un cammino di gioia con coraggio umile e generoso”. Queste parole a me ricordano la fede dei miei genitori, il clima familiare in cui siamo cresciute. Nel nostro carisma — sono una suora cottolenghina di vita contemplativa — e nella nostra spiritualità ho ritrovato questo amore ai più piccoli, il respiro profondo assimilato in famiglia. Forse qualcuno, giustamente, si chiederà: ma come si può vivere questo amore in clausura? Gesù ci ha detto: “I piccoli li avrete sempre con voi” (cfr. Mc 14,7). Una comunità monastica con la preghiera di lode e di intercessione raggiunge misteriosamente tutti, porta e fa sue le sofferenze e le gioie, le ansie e le speranze di ogni fratello e di ogni sorella; ma anche dentro la comunità non mancano mai i più piccoli, coloro che per anzianità, per malattia o per grazia lo sono diventati. Infatti “se non diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3). Scrive Bernanos nei Dialoghi delle Carmelitane: “Una volta usciti dall’infanzia, bisogna soffrire a lungo per rientrarci”.
La vita è una grande sorpresa, ognuno di noi ha dentro di sé le risorse per crescere, per essere felice e lasciare agli altri qualcosa di bello, anche il più piccolo. Dalle prove della vita accettate fino in fondo scaturiscono fiumi di speranza per noi e per gli altri. “Un fratello aiutato dal fratello è come una città fortificata” (cfr. Prov. 18,19 secondo la versione dei LXX). I miei genitori hanno portato insieme il peso di questa prova — accogliere nella loro vita la presenza di una figlia disabile — e, con la forza del loro amore, ci hanno coinvolte in questa avventura e hanno permesso a Maria di essere una persona felice.
Concludendo: sono responsabile di mia sorella Maria? Credo di poter dire, piuttosto, che è Maria responsabile di quello che sono oggi; a lei, alla sua presenza nella nostra famiglia e, quindi, nella mia vita devo molto del mio lungo cammino di maturazione interiore. Grazie, Maria!
Suor Maria Chiara Goffi
Ho avuto veramente la possibilità di scegliere?
Anne, sorella di Natalie
Mia sorella Natalie ed io siamo nate in anticipo in una sera del 14 agosto, trentanove anni fa. lo ho avuto la possibilità di avere un posto nell’incubatrice e lei no. Da allora lei soffre di un grave handicap mentale. Non potevo non sentirmi responsabile di lei in tutti i piccoli fatti della vita quotidiana dato che da sempre condividevamo molte attività. Alla scuola materna ero io a difenderla da chi la derideva. Io l’ho protetta moltissimo, l’ho presa sotto le mie ali, e ben presto ho sviluppato un’attenzione particolare per lei e per gli altri che non sono come me.
La malattia e la morte di nostra madre, quando avevamo solo sedici anni, non hanno fatto che accentuare questo stato di cose. Sono stata io, per esempio ad essere presente al momento cruciale della prima mestruazione di Natalie…
In seguito papà, che per fortuna ha trovato una casa famiglia per mia sorella, non ha mai smesso, con grande naturalezza, di dividere con me i suoi problemi, le preoccupazioni per l’organizzazione della sua vita, o le scelte da fare per Natalie. Così, quando due anni fa ci siamo riuniti con papà, fratelli e sorelle per prevedere l’avvenire di nostra sorella, è sembrato naturale che fossi io a prenderne la responsabilità. Normale: “le gemelle” sono sempre andate avanti insieme…lo, fin dal primo momento, ho avuto la sensazione di non avere avuto la possibilità di scelta, era solo evidente che doveva essere così. La vita e le cose che avvengono fanno sì che non si possa o non si voglia porsi delle domande e tuttavia…
Quando poi arriva il giorno nel quale si vuole — o si può — porsi il problema, abbiamo il diritto, noi fratelli e sorelle,.di rimettere ogni cosa in discussione, di riesaminare la situazione,di provare a cercare altre soluzioni. Questo richiede un vero e proprio lasciar la presa: riconoscere i propri limiti e accettare di farsi aiutare. Noi non siamo indispensabili e anche altri possono fare ogni cosa bene quanto noi, se non meglio. Dobbiamo permetterci di trovare questa responsabilità troppo pesante. Abbiamo il diritto di ribellarci, di gridare…Come dice Marie-Odile Réthoré, direttore sanitario dell’istituto Jeròme Lejeune: “Fratelli e sorelle, parlate, parlate, parlate. Non tenetevi nel cuore problemi che non hanno risposte solo perché nessuno li ha mai posti”.
Per quanto mi riguarda ho preso coscienza poco a poco ma, devo dire senza ribellione, che portavo un peso troppo pesante e da troppo tempo. Per esempio, quando sono nati i miei primi figli ho capito che già da molto tempo mi sentivo responsabile di qualcuno più piccolo di me e che l’ infanzia mi era stata sottratta. Fortunatamente la vita si è incaricata di darmi una vera spinta dal momento in cui ho incontrato la persona che doveva diventare mio marito. L’amore per lui mi ha persuasa a seguirlo e ad andare via da casa nonostante la tristezza di Natalie: “Mi abbandoni! Tu sei fortunata, tu puoi sposarti e avere dei figli…”. L’amore e la vita l’hanno portata a colpevolizzarmi.
Recentemente ho deciso di parlarne con fratelli e sorelle, con tutta semplicità. Così per il primo anno, non ho passato le vacanze con mia sorella. Natalie è stata ospitata da uno dei miei fratelli. Inoltre da qualche mese mi chiedo se affidare la sua tutela ad una istituzione specializzata. Non è un gesto di abbandono ma un nuovo modo di vivere la mia responsabilità e di essere sorella. Mi sono convinta che quello che ho vissuto come un peso può essere un’altra cosa. Non esiste la fatalità, bisogna attrezzarsi.
C’è gioia nel sentirsi responsabile: è quella di accompagnare una persona cara e amata, di vederla crescere maturando, di trascorrere dei bei momenti in vacanza con lei, di vedere mio marito e i miei figli che con lei si intendono a meraviglia. Natalie da parte sua mi ha fatto maturare molto, mi ha aiutato a sviluppare una grande capacità di ascolto, di accoglienza, di attenzione agli altri. E io non sono la sola. È incredibile come tra “fratelli e sorelle” di persone handicappate ci si riconosca subito, durante un incontro o un matrimonio, dalla capacità di andare all’essenziale, di raggiungere l’altro.
Questa responsabilità mi fa sentire coerente nella vita. Non potrei andare alla messa alla domenica e ignorare mia sorella. Può darsi che ci sia in me qualche residuo di senso di colpa — mi rendo conto che c’è ancora del lavoro da fare perché il mio cuore sia in pace ma io lo vedo piuttosto come una doppia scelta. È come la decisione di organizzare una giornata di Fede e Luce nella nostra città. È un momento di grande lavoro ma anche di grande gioia!
Anne De Verniette (O&I n.166)
Ora che sto per diventare mamma
Maria Paola, 34 anni, sorella di Daniele
Il mio piccolo fratellone si chiama Daniele ed è affetto da una forma di autismo che si è manifestata più o meno a partire dai tre anni di età.
Daniele è un ragazzo estremamente sensibile, dolce, attento a tutti ed a tutto quello che gli accade intorno, pur nell’apparente distrazione dietro cui si protegge. Daniele ama i colori, ama scrivere, disegnare, mangiare dolci e gelati e giocare con le parole. Ma la sua vera passione, ed ossessione, è il tempo, i giorni della settimana, lo studio del calendario che è sempre stato il suo gioco preferito (perché sa che lì vince sempre!). Il trascorrere del tempo se, da un lato, gli dà certezza e sicurezza costitutisce anche la sua più grande ansia quotidiana perché non gli basta sapere quello che farà oggi, ma deve poter programmare quello che farà domani, dopo domani e “dopo domani ancora”. Ma questo credo che sia comune anche a molti di noi, solo che lui lo dà a vedere senza troppe remore.
Il suo mondo, sin da quando ero piccola, mi ha sempre affascinato: così complesso e impercettibile, da un lato, così semplice, spontaneo, privo di barriere e inutili costruzioni che a volte ci creiamo dall’altro. Ricordo che quando vivevo a casa e tornavo stanca dalla solita frenetica routine quotidiana, lo trovavo nella sua stanza chino sul suo foglio a disegnare come se nulla lo toccasse e questo mi trasmetteva un immenso senso di pace e tranquillità. In quel momento mi fermavo anch’io a riflettere e mi chiedevo se avesse un senso quell’affanno quotidiano. Poi tutto ricominciava ed era giusto così.
Daniele, nella sua innocenza e tenerezza, è come un eterno bambino ed a me, da sorella maggiore, viene da trattarlo sempre come tale… vorrei proteggerlo da tutto e da tutte le persone che non sento vicine e questo, in realtà, è forse un mio limite. Ora che sto per diventare mamma chissà se sarò così apprensiva anche con mio figlio e come cambierà e crescerà il rapporto con mio fratello. La verità è che anche a lui, nonostante in questo periodo manifesti un forte bisogno di indipendenza, piace essere sempre coccolato ed al centro dell’attenzione di mamma, papà e sorelle; spero che riusciremo a fargli capire che queste “nuove vite” non cambieranno l’amore che proviamo nei suoi confronti e forse saranno anche per lui un’occasione per crescere e scoprire la gioia di essere zio. Daniele è questo ed è molte altre cose, è sempre una nuova gioia e scoperta perché il suo essere speciale è un dono e una ricchezza ogni giorno.
Maria Paola Tosti
Fratelli per sempre
Imma, 20 anni, sorella di Pasquale
Mio fratello, Pasquale, ha 25 anni: a 4 mesi di vita è stato colpito dalla meningite che gli ha lasciato un ritardo mentale. Ricordo che all’età di 4 anni mia madre mi parlava di Pasquale, dicendomi che era malato, di come si era evoluta la sua malattia, le terapie che seguiva ogni santo giorno… Io ero solo una bambina, ma anche da bambini si percepiscono le sofferenze, spesso senza poter far nulla; ovvero una cosa la facevo: spinta dai miei genitori, ero la più classica delle brave bambine, quasi a bilanciare l’ingiuria subita dalla sorte. Penso che essere coinvolti ed informati consente a noi fratelli di affrontare più serenamente, rispetto alla disabilità, le difficoltà che vengono dall’esterno. Nonostante le migliori intenzioni dei miei genitori, la mia infanzia mi è stata “rubata” da un senso del dovere prematuro, ma quello che in buona fede loro facevano, era cercare di essere i più normali possibile.
Pasquale non ha passato neanche un giorno in istituto e come risultato è autonomo: usa molto bene il pc, tutto ciò che riguarda la nuova tecnologia, ha una memoria straordinaria: conosce ogni singola parola delle canzoni di Ramazzotti… peccato che le canti tutti i giorni, quasi a squarciagola, in casa. Vivere con un portatore d’handicap non è impossibile, anzi, è abbastanza divertente, è come avere sempre a che fare con un bambino. Ho sempre accettato mio fratello e questo è merito dei miei genitori, perché anche se sono cresciuta con i miei nonni, a causa dei loro impegni con Pasquale, (scuola, logopedia, musicoterapia, equitazione e altre terapie) il mio pensiero andava a lui e di sera ci ritrovavamo a condividere la camera e i giocattoli… non siamo mai stati divisi. Pasquale per i suoi modi un po’ troppo aperti non sa trattenersi dal dire quello che sente, che prova: è molto affettuoso e socievole e alcune volte per me non è facile accettare questo suo comportamento perché può creare imbarazzo e disturbo per le persone che lo circondano, ma alla fine vedo la gioia e il sorriso sul suo viso e mi lascio andare. Il mio mondo emotivo, la mia personalità, le priorità esistenziali, sono state, e sono ancora influenzate dalla presenza di mio fratello in modo radicale e profondo. Non a caso prendo parte, insieme alla mia famiglia, alla comunità di Fede e Luce, dove mio padre è responsabile ed io mi sento la sorella di tutti i ragazzi, essendo unica testimonianza di sorella in comunità, e forse anche loro mi considerano tale. Nella vita studio come animatore sociale, perché il mio sogno è stato da sempre quello di lavorare con questi ragazzi. So che Pasquale, una delle persone più importanti della mia vita, ha ed avrà sempre delle difficoltà che gli impediranno di cavarsela completamente da solo. Pasquale avrà comunque bisogno di qualcuno che lo aiuti e che lo guidi ed io sono felice di essere quella persona perché si è fratelli per tutta la vita.
Imma
Quanto costa separarsi da lui
Giorgia, 33 anni, sorella di Corrado
La mia storia è quella di tante altre sorelle che come me sin da piccole, si sono dovute fare un po’ da parte, si sono rese “piccole” per non pesare sui genitori, si sono trovate a “subire” l’invadenza e l’incomprensione dell’handicap in casa propria, nella propria stanza, nelle coccole di una mamma, a scuola, con le amiche.
Sono passata e cresciuta attraverso tutto questo cercando, con fatica, di trovare un significato alla diversità, vivendone il senso di ingiustizia che mi ha accompagnato per tanto tempo. Ma poi, ad un certo punto, anche se non capisci il “perché”, accetti che sia così e basta, e diventando grande ti accorgi che nella tua vita contano davvero poche cose al mondo… e quel fratello così “invadente” e scomodo diventa la tua stessa forza, la tua parte migliore, e senti di amarlo al di là di ogni incomprensione. Senti di dovergli tutto. Di dover essere presente, di doverti prendere cura di lui, di doverlo proteggere, di essere un suo prolungamento. E mentre lo fai lui ti apre un mondo d’amore, diventa il portone di accesso alle piccole cose della vita che fanno grande l’esistenza di Dio. Il momento difficile è quando devi separarti da tutto questo, da questa responsabilità che senti di avere e che a volte va oltre il dovuto.
È il momento in cui noi fratelli dobbiamo “andare”, pensare alla nostra vita e recidere il cordone. Secondo me c’è una cosa che accomuna tutti noi: il senso di colpa. È un tarlo che lavora lento, costantemente, sin da piccoli; la colpa di avere avuto di più e di poter avere una vita normale, e che se te ne vai “loro poi come fanno?!”. Ognuno, a modo proprio, sente di dovere espiare, e sente di dover dare a chi ti ha messo al mondo, parte della tua libertà perché a loro è stata tolta.
E ti capita che mentre pensi a come andrà la tua vita, a come renderti autonoma, a come crearti una famiglia tua, senti crescere in te la paura di vivertela questa vita, come se stessi “rubando” qualcosa che non puoi avere. Non è proprio così che mi sono sentita io, ma ho sempre pensato che il mio posto doveva restare accanto a mia madre, accanto a mio fratello, che senza di me sarebbe stata troppo dura. E ho cercato di rimandare il momento della separazione finchè ho potuto.
Oggi io una mia vita ce l’ho. Sono andata a vivere da sola, già da qualche anno, e ora vivo in un’altra città. Credo di esserci riuscita perché ho avuto abbastanza amore per me stessa da sentire che dedicarmi alla mia vita non poteva essere sbagliato. Ma ancora 0ggi, di tanto in tanto, mi devo fare il lavaggio del cervello per convincermene; ancora oggi, devo fare un atto di forza su me stessa per non sentirmi in colpa quando non ci sono, e quando mia madre deve contare solo sulle proprie forze… Vorremmo dargli l’anima a questi genitori, a questi fratelli che per quanto dura, questa vita ce l’hanno resa speciale, e questo mi sento di dirlo al di sopra di ogni cosa. Purtroppo o per fortuna, quel cordone non lo spezzi mai fino in fondo; per senso di colpa, forse! ma soprattutto per amore.
Giorgia Fontani
Potrei forse fare di più per Sabina e per Il Carro…
Max, 46 anni, fratello di Sabina
Max con la moglie ha due figli piccoli che segue pazientemente (“in fondo è un bene che li abbia avuti tardi perché non avrei avuto lo stesso spirito qualche anno fa… e i figli, adesso sono convinto, vanno seguiti personal mente…”). Sua sorella, Sabina, ha un anno e mezzo meno di lui, ha gravi disabilità sensoriali e intellettive e fino a quindici anni fa viveva insieme alla loro mamma.
Nonostante la grande difficoltà a parlare di sé, con uno spirito di grande amicizia, ci racconta di come vive la responsabilità verso sua sorella e di come la comunità in cui vive costituisca un occasione di legame con lei piuttosto che di distacco.
“Non mi ricordo particolari momenti in cui mi sono sentito oberato dal peso di avere una sorella come Sabina: vivevo e vivo in un condominio pieno di cugini e amici con i quali passavo fuori casa i miei pomeriggi, per strada a giocare e parlare…
I miei genitori hanno sempre creduto nell’importanza di badare loro, in prima persona, alle necessità di noi figli e quindi di Sabina, e questo mi ha portato a non sentire la sua presenza con una difficoltà particolare…certo, forse qualcosa posso averla dimenticata o rimossa. Seguivo le sua vicende scolastiche: sapevo quali centri frequentava e alcune rare volte sono stato incaricato di andare a prenderla ma sempre nei casi estremi in cui mamma o papà non riuscivano ad organizzarsi altrimenti.
Quando papà è mancato, è stata mamma a farsi carico della famiglia e ancora lei, in prima persona, ha continuato a gestire le necessità di Sabina.
Circa quindici anni fa, è arrivata la proposta da parte del primo nucleo della comunità del Carro, di accogliere Sabina tra loro, insieme ad altri due ragazzi. Mamma, nonostante cominciasse ad avere una certa età, non pensava ancora a trovarle una sistemazione diversa da casa nostra.
Per un certo periodo è stata incerta sul da farsi: parlava anche con me…le sembrava di abbandonarla… poi, conoscendo le persone cui l’avrebbe affi data e con la modalità dell’accoglienza a settimane alterne, ha deciso di fare questo grande passo affidandola a loro.
Quando poi si è trattato di gestire l’eredità della nonna e sapendo quali fossero le sue volontà di venire incontro alle necessità di Sabina, la famiglia (fratelli e sorelle di papà) ha costituito una fondazione per gestire questi beni e darli in uso al Carro, con cui abbiamo lavorato parecchio per valutare tutti gli aspetti di una situazione molto complessa. Si trattava di trovare un modo di continuare a vigilare questi beni e allo stesso tempo tutelare l’associazione che poi ne ha fatto due comunità di accoglienza per circa 16 ragazzi disabili adulti!
Per molto tempo ho continuato a rimanere lontano dalla vita della comunità nonostante mamma mi dicesse di andare alle varie occasioni di incontro della comunità: ho cominciato ad avvicinarmi a loro in occasione dei pranzi di Natale che per molti anni sono stati organizzati dalla comunità con tutti i familiari degli ospiti. E adesso che da un po’ di tempo non c’è ancora un luogo abbastanza grande da poterci accogliere tutti, davvero ne sento la mancanza… sono stati per molto tempo, fino a che non sono arrivati i miei figli, il momento più bello del Natale, da me sempre difficilmente tollerato.
Spero proprio che presto si rinnovi questa tradizione.
Piano piano insomma, un tassello alla volta, ho cominciato a partecipare alle assemblee dei soci, alle occasioni che la comunità proponeva per ritrovarsi insieme come la raccolta delle olive. Prima di avere i bambini partecipavo al gruppo raccolta fondi… in seguito è diventato più difficile e spesso mi ritrovo a pensare se non potrei fare di più per Sabina e per il Carro…
Non credo che ci sia un posto migliore per lei: è con persone che le vogliono bene, la rispettano e la conoscono meglio di quanto, probabilmente, la conosca io. È serena e non è difficile capirlo. Quando nostro padre si ammalò e poi morì, Sabina era davvero molto arrabbiata e cominciò a dare dei pizzichi molto forti a chi la accompagnava …anche se non si direbbe, ha il modo di far capire il suo stato d’animo. Adesso i suoi pizzicotti sono più scherzosi, provocatori, forse un modo di mettersi in relazione e a me ne riserva sempre un paio quando la vedo”.
(a cura di Cristina Tersigni) , 2009
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.105
Sommario
Editoriale
Un fratello aiutato da un fratello è come una città fortificata di M. Bertolini
Dossier: Fratelli e Sorelle
Sono responsabile di mio fratello disabile?
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Libri
Cristo con gli alpini, Carlo Gnocchi
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