Ancora adolescente, Israél, sotto falso nome partecipa alla lotta di Resistenza nella Parigi occupata dai tedeschi. Medico pneumologo, finirà per dirigere per oltre vent’anni il reparto di oncologia dell’ospedale Avicenne di Bobigny. Israél sottolinea evoluzioni ed involuzioni nello sviluppo dalla medicina di ieri a quella di oggi. “Spesso sono rimasto colpito nel vedere con quanta leggerezza vengono abbandonati dei pazienti per i quali non sono state prese in considerazione tutte le possibilità né sparate tutte le cartucce. Com’è possibile smettere di interessarsi a una vita? In nome di che cosa?”
Si è formato sul campo, in periodi terribili in cui moriva il 95% dei malati di cancro. Quando parla di malati terminali e delle loro sofferenze, il prof. Israél sa di cosa sta parlando. “Credo di poter sostenere che, qualunque sia l’esito della malattia, sentire che la propria vita conta per il medico che lo tiene in cura cambi enormemente le cose per il paziente”.
Non è nella religione ma nella pratica del judo che il prof. Israél trova l’aiuto per affrontare situazioni in cui sofferenza e morte sono sempre presenti, come nei reparti di oncologia. Praticando fino ai cinquant’anni le arti marziali, ha imparato a guardare in faccia le difficoltà e fronteggiarle. Ricorda di un malato di cancro con parecchie metastasi. “Bisognava sottoporlo a un trattamento a base di interleuchina e l’ho avvisato che sarebbe stata dura e che doveva aspettarsi delle settimane di grande sofferenza. Mi ha dato una risposta che non posso dimenticare: dottore, farò tutto quello che mi dice perché da quando ho il tumore, lei è il primo medico che mi guarda negli occhi”.
È determinante valutare le parole del prof. Israél alla luce della sua lunga esperienza professionale. Molti i malati arri vati in ospedale in condizioni talmente gravi da sprofondare in uno stato di semicoma. Tirati fuori da questo stato con una rianimazione adeguata, “loro dicevano: ‘quando mi dimette? Vorrei andare qualche giorno in Costa Azzurra per riprendermi’. Pensando a questi pazienti, mi dico che se fossi stato autorizzato da un ‘testamento” scritto, trovato per caso nei loro portafogli, ad abbreviare attivamente la loro vita mentre erano in semicoma — cosa che avviene nei Paesi Bassi — avrei commesso un vero e proprio crimine, anche se fossi stato incoraggiato dalla famiglia, dalla legge e dalla Lega Santa!”
Il prof. Israél non elude le domande su questioni delicatissime: la reazione ed il dolore dei familiari di fronte all’aggravarsi delle condizioni del loro congiunto: la malattia dei bambini; eutanasia passiva; eutanasia attiva.
Molto realismo e parole semplici. “L’accanimento terapeutico, soprattutto in oncologia, è stato molto condannato, e a giusto titolo”. “In altre parole, molti medici della mia generazione si sono resi colpevoli di accanimento terapeutico, riferendoci, con questa espressione, al fatto di portare avanti una terapia che non serve a niente”. Però, chiarisce Israél: “penso che l’ostinazione terapeutica, che consiste nel tentare tutto, non abbia nulla a che vedere con l’accanimento, e che, anzi, sia assolutamente raccomandabile. Ci sono migliaia di pazienti che devono la vita, e anche la guarigione, all’ostinazione di qualche medico e di qualche chirurgo”.
Molta chiarezza anche per illustrare i motivi culturali, più che religiosi, della posizione contraria all’eutanasia. Tenendo conto del patrimonio genetico, delle potenzialità di ogni cervello umano, elementi che, insieme all’esperienza, alle abitudini ecc., portano alla formazione dell’individuo, è possibile affermare che nell’intera storia dell’umanità non sono mai esistiti e non esisteranno mai due individui uguali. “Ciò significa che ogni essere è assolutamente unico” e il medico è in qualche modo custode di questa unicità. “Dobbiamo essere consapevoli di questo ‘miracolo’. Allora, o il medico, che costituisce il riparo dallé avversità durante il soggiorno terrestre, comprende questo statuto unico, singolare, e manifesta di averlo capito mediante le cure, la volontà, la capacità di rispetto, di compassione e di guida, oppure rifiuta di prendere in considerazione il fatto di avere in consegna un’esistenza unica, insostituibile, con la conseguenza di una grave minaccia per le culture in generale e per lo statuto di homo sapiens sapiens in particolare”. Se i medici accettano di praticare l’eutanasia, ciò comporterà la sfiducia dei pazienti nei confronti dei medici.
“L’esigenza di eutanasia è sempre stata formulata in nome della dignità. Confesso che l’uso di questo termine mi fa uscire particolarmente dai gangheri. Per una persona sana, la mancanza di dignità può coincidere con l’incontinenza. Ma decidere una cosa del genere vuol dire non tener conto di quello che passa per la testa di un malato. Dall’alto di uno stato di salute buono, è facile decidere che qualcuno abbia perduto la dignità tanto da condannarlo a morte. Per me è a mala pena concepibile!”.
Ma, il rischio più grave è per l’intera società: “l’eutanasia legalizzata rappresenta la rottura del legame simbolico tra le generazioni. Figli, nipoti e, oramai, pronipoti, visto che stiamo per diventare una società a quattro generazioni, sapranno che ci si può sbarazzare dei vecchi”. “Esiste un non detto indispensabile alla coerenza di una società ; rivelatore di questo non detto è il rispetto dovuto alla vita e la necessità di estendere fino alla fine gli sforzi per prolungarla”.
GBB, 2009
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.108
Sommario
Editoriali
Pensando alla nascita di Gesù di M. Bertolini
Riflessi di luce nell’ombra di R.A.
Dossier: l’intimità del corpo
Maria non ha il senso del pudore di J. e C. Santagostini
Condividere l’intimità del proprio figlio di A. Jarry
Di fronte alla nudità non è facile di Myriam
Altri articoli
Vita tra fratelli di Federico Girelli
Come il ferro con la calamita Laura Nardini
La disabilità dell’informazione E. De Rino
Ricordo di Alda Merini Pennablù
Rubriche
Libri
Niente giochi nell’acquario, C. Lord
In cerca del padre, G. Galeotti
La musica segreta della terra, M. Stracham
Contro l'eutanasia, L. Israèl
Ma io che c’entro?, G. Albanese