Per chi non conosce l’esistenza della Città dei Ragazzi, il titolo di questo libro potrebbe essere solo il titolo del romanzo, appunto. Ma, in realtà, è molto di più. E’ anche il nome di una comunità nata nel secondo dopo guerra alle porte di Roma per iniziativa un sacerdote irlandese, J.P. Carrol-Abbing. La città accoglie ragazzi soli, d’ogni nazionalità, per dare loro una seconda opportunità.
Affinati racconta le storie sgangherate ed incredibili di questi ragazzi incontrati essendo il loro insegnante. L’autore si mette in gioco; instaura con loro un rapporto speciale; si lascia insegnare un linguaggio universale dove le parole sono rarefatte, contano per lo più i gesti, gli sguardi, i silenzi. Arriva ad accompagnare due dei suoi allievi nel viaggio di ritorno a casa, il Marocco, dal quale i due erano partiti molti anni prima. Il confine fra vita e scrittura si fa sottile perché raccontare le vite dei suoi «figli» lo ha portato a raccontare la sua vita di figlio, il rapporto difficile col padre e la sua famiglia d’origine.
Presto ci si rende conto che è anche la storia del suo rapporto con la paternità. Lui, insegnante tra i ragazzi, si scopre uno di loro. Scopre, insomma, che la condizione di Alì, Hafiz, Omar e tutti gli altri appartiene ad una zona inconfessabile della sua vita, quella che lo ha visto figlio di un padre che aveva vissuto a sua volta l’orfanità.
«Solo oggi che mio padre è morto, posso dire che era uguale a voi, ma lo aveva nascosto, a se stesso in primo luogo. Aveva sepolto la sua orfanità, come se la considerasse una carcassa putrefatta. Adesso scopro che quello di cui lui non fu capace, è compito mio. Lo facevo da ragazzo, senza rendermene conto; elaboravo il lutto dell’abbandono al posto suo: era quella la matrice della mia tristezza, l’origine della mia solitudine che m’’attanagliava».
Laura Nardini, 2008
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.102