Alice è invece una bambina spinta dal padre ad imparare uno sport che odia, lo sci. Le insistenti aspettative paterne, unite al freddo pungente e all’ingombrante attrezzatura la fanno sentire sempre inadeguata e impacciata. Così un giorno durante un’escursione con la scuola sci, si allontana dal gruppo e, persa nella nebbia, se la fa addosso. Umiliata, cerca di tornare a valle da sola e si rompe una gamba. La zoppia, che le rimarrà per questo evento, la segnerà per sempre.
“La solitudine dei numeri primi” ci racconta di queste due solitudini, scaturite da due eventi diversi, ma dalle conseguenze altrettanto irreversibili; del loro incontro e del progressivo avvicinamento. Alice e Mattia da subito si riconoscono nella loro diversità, nel loro essere numeri primi.
Dice Mattia: “Lui e Alice erano così, due primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero”. La storia di Mattia e Alice è la metafora della storia di ognuno di noi, del desiderio di cercare quell’essere umano che più ci somiglia, quel numero primo vicino, che forse riusciamo a toccare, col quale forse è possibile avere una condivisione profonda. E’ anche la storia di chi, percepisce dolorosamente la propria diversità e dapprima arranca per sembrare normale, poi, soffocato dal senso d’inadeguatezza, cerca qual cuno in grado di accettarlo per come è.
Non so se l’autore abbia mai avuto a che fare con l°handicap o abbia mai vissuto il senso d’’impotenza che scaturisce dalla diversità, ma mostra una sensibilità non comune nel trattare un tema così complesso e ricco di sfumature. Nel narrarci di Mattia e Alice, Paolo Giordano non indulge mai alla compassione o a facili giudizi morali. Con una prosa asciutta e allo stesso tempo commossa, lascia che siano i pensieri estemporanei e le piccole vicende della vita quotidiana a dare spessore alla psicologia dei protagonisti. Alla fine del loro percorso di avvicinamento, Paolo Giordano sembra però dirci che tutti questi sforzi sono destinati a fallire, che siamo inevitabilmente destinati a rimanere separati, magari ad avvicinarci progressivamente, ma mai a compenetrarci. E tuttavia il libro comunica una tenace speranza, la speranza che nasce dalla sensazione che forse “toccarsi” non è necessario, che la sola vicinanza tra due anime possa farle crescere, fiorire nelle proprie potenzialità e possa condurle, per vie imperscrutabili, ad accettarsi.
Stefano Marchetti , 2008
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.103